venerdì 14 dicembre 2012

Nostalgia del far west


In tutte le famiglie c'è sempre qualcuno che, di fronte agli scadenti programmi televisivi che ci vengono proposti, ad un certo punto esclama: "Eh, ti ricordi i film del far west, i cowboy e gli indiani, le battaglie, gli inseguimenti a cavallo, i saloon ... quelli sì che erano film: vuoi mettere John Wayne!" ... e così via. Se si tratta di persona anziana, gli altri lo ascoltano pazientemente, pensando fra sé: "ho già sentito questo discorso molte volte ...."
Su Avvenire del 13 dicembre, un articolo di Ilaria Nava (http://www.avvenire.it/Vita/Pagine/legge-40-un-altro-piccone.aspx) titola: "Legge sulle Dat al capolinea: è il far west del fine vita". Si tratta della presa d'atto che, quasi certamente, con lo scioglimento anticipato del Parlamento, il progetto di legge sulle dichiarazioni anticipate di trattamento non verrà approvato definitivamente e, quindi, decadrà. Come è noto, e come viene spiegato nell'articolo, il nuovo Parlamento non deve esaminare i progetti che il precedente aveva solo parzialmente approvato: deve ricominciare da zero. Avvenire, oggi, sottolinea questo dato con un articolo di Francesco Ognibene (http://www.avvenire.it/Commenti/Pagine/la-macchia-di-quel-voto-sottratto-al-parlamento.aspx). 

Quando ho letto l'articolo di Ilaria Nava - che si conclude con la constatazione: "Siamo al far west del fine vita", mi sono detto: "Mi sembra di aver già sentito questo discorso qualche anno fa ..."
Poi mi sono ricordato: sì, il famoso far west della provetta, quello per cui, prima del 2004 tutti facevano quello che volevano, con tanti embrioni prodotti e congelati, distrutti, utilizzati per la ricerca ...
Ora ricordo: in base a quella parola d'ordine - "No al far west della provetta!" - sono riusciti a fare approvare la legge che autorizza espressamente la fecondazione extracorporea, anche per le (sedicenti) coppie non sposate, permette la produzione di decine di migliaia di embrioni, il congelamento della maggior parte di loro, il trasferimento solo di quelli appositamente scelti, e perfino l'aborto volontario di quei pochissimi embrioni che, sopravvissuti miracolosamente al trasferimento in utero, non vanno più bene ... di quella legge che autorizza esplicitamente l'aborto selettivo ("te, continua a vivere; te no, siete in troppi e tu non mi sembri molto in forma ..."); che determina la morte di centinaia di migliaia di embrioni ...

Ecco la strategia vincente! Quella che dovrebbe compattare tutto il mondo cattolico (e, addirittura, il mondo prolife) intorno alla nuova parola d'ordine: "No al far west del fine vita!". 
E sì, perché, quando (e se) poi riusciranno ad approvare quella legge, e quando inizieranno a cadere uccisi i primi disabili, quando i vecchi nelle case di riposo inizieranno a morire "puntualmente", quando i primi neonati prematuri saranno lasciati morire, qualcuno è già pronto ad indicare gli indiani cattivi: i Giudici, la Corte Costituzionale, l'Europa ... e a dire: "ma noi li avevamo messi i paletti!". 

Mi è tornato in mente il titolo di una canzone. Come faceva? "Nostalgia, nostalgia canaglia ..."

Giacomo Rocchi

sabato 3 novembre 2012

LA MODERNA EUGENETICA

Leggere per intero le 78 pagine di motivazione della recente sentenza della Suprema Corte di Cassazione che condanna un ginecologo a risarcire il danno cagionato al bimbo nato "anormale" (termine tra i tanti usato in sentenza per descrivere il bimbo), perché affetto dalla sindrome di Down, in conseguenza del fatto che la mamma non ha potuto esercitare il "diritto di aborto", per carenza di diagnosi, ha l'effetto di un pugno nello stomaco e fa il paio con quell'altra sentenza di oltre 68 pagine che ha permesso di lasciar morire per fame e sete Eluana Englaro. 
In gergo para giuridico, questi pronunciamenti vengono definiti: "sentenze manifesto", in quanto dietro paludati ed altisonanti sofismi giuridici, nonché prolisse quanto vuote argomentazioni astratte, ai limiti del parossismo, sovvertono principi basilari di diritto naturale e positivo, per affermare il principio assoluto dell'autodeterminazione dell'uomo sul bene Vita. Sia quella intrauterina, perché incapace di reazione violenta e totalmente affidata alle cure della madre, che quella malata non più rispondente a canoni di “dignità umana” dettati da soloni in buona salute. 
Con questa ultima sentenza, il desiderio eugenetico della madre che dichiara di volere solo un figlio sano, perché qualora fosse "anormale", nello specifico Down, quel figlio dovrebbe morire per mano del medico abortista, diviene fondamento di un diritto risarcitorio verso un sanitario che non ha, con la sua condotta seppur omissiva, determinato l'anomalia genetica del bimbo. 
Ciò è di palese evidenza che neppure Le Loro Signorie, nel lungo argomentare, hanno potuto negarlo, ma la responsabilità c'è, se ben abbiamo compreso, ma il se è d’obbligo data la tortuosità dell’argomentare, in quanto quel figlio è nato, in quelle condizioni, per colpa del medico che non ha ben diagnosticato la possibile malformazione, impedendone di fatto il di lui aborto da parte della madre. 
In sintesi, si potrebbe affermare che non potendo condannare, per assenza di patrimonio, al risarcimento del danno il Buon Dio o madre natura, (a seconda che si sia credenti o atei) per l'errore genetico verificatosi all'atto della scissione delle cellule, la Corte condanna l'unico soggetto che poteva evitare in concreto ed in concorso con la madre, la nascita dell'"anormale", diagnosticando correttamente la malformazione. Costui, infatti, ha impedito, con il suo errore, che la mamma attuasse quel piano eugenetico manifestato sin dalla prima visita, quando, come si legge in sentenza, ebbe a dichiarare che condizione imprescindibile per la prosecuzione della gravidanza era che il bimbo fosse sano, pena la morte per quel figlio. 
In conclusione, però, ci chiediamo, seguendo a contrario, il "ragionamento" della Corte, ma se la mamma avesse invece voluto quel figlio, ben consapevole dell'anomalia inscritta nei suoi geni, essendo tale vita portatrice di “un danno” non solo, come chiarito dai giudici, per tutta la famiglia, ma anche per la collettività che dovrà, suo malgrado, farsi carico, con il sistema di assistenza sociale, della povera creatura, vi sarebbe una legittimazione dello Stato ad ottenere un risarcimento da quella donna, per tutte le conseguenze economicamente negative che la collettività dovrà sopportare a seguito di quella scelta, non conforme ai canoni di normalità correnti, tenuto conto che oggi è possibile evitare il “danno” "grazie" alla democristiana e ultra progressista legge 194/78, nella sua più moderna esegesi, fornitaci da una sempre aggiornata ed evoluta giurisprudenza delle Supreme Corti? 
Ai posteri e alla creatività dei nostri "Supremi Giudici", l'ardua sentenza.

Pietro Brovarone 
Movimento per la Vita - Biella

venerdì 19 ottobre 2012


Nel quadro del dibattito politico sulla legge d’aborto 194, appare talvolta la tesi secondo la quale essa non riconosce il diritto di aborto. 
Una firma femminile regolarmente presente anche nella stampa cattolica, presumibilmente associata a una qualche corrente clerico-moderata, è pienamente convinta di questa tesi, sostenuta, a suo dire, da “tutti i giuristi, a cominciare da quelli cattolici.
Liberissima – ovviamente – di sostenere questa tesi. Ma guai a chi sostiene il contrario e – ohibò! – documenta che, quantomeno, ci sono giuristi che la pensano diversamente. 
Chi fa così – come ha contestato ad un mio amico pro-life – ce l’ ha con lei, vuole danneggiarla, è scorretto, non ci si può discutere, che la smetta………

Francamente! Al di fuori di qualunque intenzione autoreferenziale, devo dire che, poiché per motivi puramente anagrafici e senza alcun merito, faccio parte della stagione dei fondatori, io c’ero, e conosco quelle battaglie e quei giudizi.
(……….) Perciò i difensori della legge 194 commettono una grave scorrettezza quando scrivono che la legge ‘ammette l’aborto soltanto in casi particolari’. La verità, infatti, è che nei primi novanta giorni di gestazione l’aborto è completamente libero e ha come unica giustificazione la richiesta della madre. Nella legge non vi è alcuna casistica limitatrice. (…….).
Ma vi è di più: le circostanze dell’art.4, già estese fino a comprendere ogni ipotesi, non debbono essere provate, ma soltanto ‘accusate’ dalla madre.
Chi difende la legge dice qualche volta che l’aborto non è un diritto civile. Di fatto, però, la normativa vigente lo riconosce come un diritto civile altamente protetto, come un vero e proprio diritto di libertà garantito dalla gratuità e dall’obbligo dello Stato (cioè di tutti noi) di dargli soddisfazione. Dunque la legge ha introdotto il diritto di aborto che prima non esisteva.
(…………).”

Questa citazione fa parte di un articolo che, come scrive l’autore, era stato “espressamente chiesto” dal Corriere della Sera, con l’accordo di pubblicarlo durante la campagna referendaria del 1981; ma non fu pubblicato “perché successivamente – come mi [all’autore] fu detto – la linea era cambiata.”
La probabilmente più giovane firma sarebbe interessata a conoscere l’autore? O no?
L’autore, entrato in magistratura nel 1961, è l’attuale parlamentare europeo Carlo Casini.
Fra le molte possibili, mi limito a una citazione.

Mario Paolo Rocchi

Socio fondatore del primo CAV d’Italia e del MpVI

giovedì 13 settembre 2012

Sentenza della Corte Europea dei Diritti dell'Uomo: un'analisi




Ha fatto molto discutere nei giorni scorsi la sentenza della Corte Europea dei Diritti dell'Uomo che - dopo la richiesta di una coppia italiana portatrice sana di fibrosi cistica, chiedeva di poter effettuare una fecondazione extracorporea seguita da esame degli embrioni (diagnosi genetica preimpianto) e scartare quelli eventualmente affetti da malattia, dichiarando la legge 40 incoerente con la legge 194 e adducendo come motivazione l’articolo 8 della Convenzione dei diritti dell’uomo a cui la legislazione nazionale deve sottostare e dove viene enunciato il diritto ‘al rispetto della vita familiare entro cui lo Stato non può entrare se non per motivi di sicurezza nazionale’. Come sempre in materia di difesa alla vita nascente la menzogna si nasconde nei dettagli mescolando ragionamenti veri su premesse false. Andiamo con ordine. I ricorrenti, nel 2006, avevano già concepito un bambino con la fibrosi cistica. Nel 2010, in seguito ad un’altra gravidanza, avevano fatto la diagnosi prenatale scoprendo che il bambino era malato. Lo abortirono al secondo trimestre secondo la legge 194. Quindi non sono sterili o infertili e dovrebbero essere fuori dall’applicazione della 40 se non fosse per un allargamento delle linee guida dell’allora ministro L.Turco (2008) che introdusse la frasetta ‘anche per quelle con malattie sessualmente trasmissibili’, ovviamente si riferiva ad altro tipo di patologie….ma si sa il solito buco nella diga che poi…La coppia infatti scrive fra le motivazioni che non ha senso che le sia stato permesso l’aborto di un feto, ma non le si conceda l’eliminazione di un embrione. E’ questo l’affermazione cavalcata ovviamente perché essendo forte il dolore per l’aborto che al secondo mese è un parto pilotato, “l’umana pietà irrazionale” dice: “ meglio che questa diagnosi preimpianto la facciamo sull’embrione”, fuori dal grembo della madre e lo eliminiamo prima di inserirlo nel laboratorio dove è stato prodotto! (come se l’embrione non fosse già figlio di quella coppia e la sindrome post fecondazione avesse a che fare solo con quelli non attecchiti e non anche con quelli’fantasma’ per averli lasciati in laboratorio!) E’ già e quanti embrioni produciamo..fino a quello sano? E poi dopo che abbiamo tolto delle cellule per lui vitali nel suo stadio evolutivo e scopriamo che è malato? Ovvio lo buttiamo. La Corte Europea dà ragione alla coppia, ma è debole quando scrive che l’embrione non può essere considerato un bambino. Infatti, in questo punto ritroviamo la prima contraddizione della sentenza, che risulta incoerente con la giurisprudenza europea, dato che la Corte di Giustizia Europea ha ormai affermato che “sin dalla fase della sua fecondazione qualsiasi ovulo umano deve essere considerato come un embrione umano, dal momento che la fecondazione è tale da dare avvio al processo di sviluppo di un essere umano”. E qui arriva la Verità, da altri usata per altri scopi, perché sì purtroppo, la l. 40 è incoerente perché vieta la diagnosi preimpianto ma poi fa “salva” la l. 194 che prevede l’aborto sia per qualsivoglia ragione nel primo trimestre, anche per quelli sopravvissuti alle tecniche di impianto, che nel secondo trimestre (a parole “solo” per la tutela della salute, anche psichica, della donna ma di fatto a seguito di diagnosi prenatali sono tanti i bimbi eliminati perché malati), perché sì, purtroppo,le tecniche di fecondazione in vitro sono nate e sono state sviluppate con un’impronta eugenetica: gli embrioni possono essere prodotti e congelati in gran quantità (i “paletti” della l. 40 sono stati quasi tutti “abbattuti” o “bypassati” prima dalle linee guida e poi dalle sentenze dei giudici italiani) e essere trattati come cose e non come persone, perché sì, purtroppo esiste una “coerenza” di queste due ingiuste, inique, uccisive leggi: perché sì, purtroppo in Italia, da 34 anni applicando la 194 si fa eugenetica (uccidendo i bambini prima della nascita se sono malati o affetti da malformazioni). Ora tocca al ricorso del Governo Italiano e alla Grande Chambre.. A questo punto ci sarà qualcuno che avrà il coraggio di dire che la tutela non dovrebbe valere solo per l’embrione ma anche per il feto: come non si accetta la diagnosi preimpianto a scopo eugenetico, non si dovrebbe accettare nemmeno la diagnosi prenatale che ha lo stesso fine? E quindi, questa volta sì, per coerenza, queste leggi bisognerebbe eliminarle entrambe perché figlie entrambe di quel ‘male minore’ che ci porta dritti dritti nelle braccia del Maligno Maggiore.


Cinzia Baccaglini

giovedì 30 agosto 2012

Legge 40. In risposta agli articoli sui giornali del 29 agosto 2012


E’ tornata oggi d’attualità sui giornali la legge 40 sulla fecondazione assistita: se sia giusto o no vietare la
selezione pre-impianto.

E’ un falso dilemma perché il male viene prima della legge 40: non è lecito che la vita di un figlio abbia inizio nella solitudine di una provetta di laboratorio anziché dentro al grembo della sua mamma.

L’unico modo lecito di procreare è che il concepimento avvenga dopo un atto unitivo sponsale, così come il  Padre -creatore della vita- nella sua somma sapienza, ha stabilito.

Con la fecondazione extracorporea la donna non è messa incinta dal proprio marito (che è l’unico modo lecito), ma viene messa incinta con un atto medico.

Allora, ci si domanda: “Che cosa fare davanti al dramma della coppia infertile o della coppia portatrice di malattia genetica? Fin dove la scienza medica può arrivare?” Ecco, la scienza medica ha il dovere di curare – per quanto può fare – le cause dell’infertilità, ma poi si deve fermare … non può sostituirsi all’atto unitivo
degli sposi: questo è gravemente illecito!!! E non si parli di ‘diritto di avere un figlio’ perché non esiste il diritto di avere un figlio (è un desiderio… ma il desiderio non è un diritto); esiste invece il diritto del figlio (questo sì!) di venire concepito nell’amore dei genitori, secondo il disegno di Dio, così come ha avuto origine
la vita di noi tutti: la ‘mia’ vita, la vita dei ‘miei’ genitori, dei ‘miei’ figli…..

E soprattutto non si dica che la legge 40 è una legge cattolica e che è cattolico chi la difende, perché la legge 40 è gravemente ingiusta in quanto autorizza un modo di procreare moralmente illecito. E questo lo afferma il Magistero della Chiesa.

Il solo merito (se così si può dire) è quello di essere forse meno peggiore delle leggi in vigore in altre nazioni.
Tutto qui.

Bologna, 29 agosto 2012

Paola Pareschi Baravelli
Casalecchio di Reno (BO)


mercoledì 29 agosto 2012

Menzogne e avvoltoi

La Costituzione della Repubblica Dominicana statuisce, a seguito di una riforma approvata nel 2009, che "il diritto alla vita è inviolabile dal momento del concepimento fino alla morte naturale"; vieta, quindi, l'aborto ed abolisce la pena di morte.
Una proclamazione evidentemente intollerabile per il mondo occidentale "evoluto", quello per cui l'aborto volontario libero, gratuito e assistito dovrebbe tutelare il diritto alla salute della donna, la sua "salute riproduttiva" e per il quale il concepito non ha nessun diritto, semplicemente "non è".
I tentativi di scardinare questa Costituzione (che, orrore! proclama anche che il matrimonio si fonda sull'unione tra un uomo e una donna ... quale scandalo!) sono quindi assolutamente prevedibili. Come le potenti società abortiste hanno sempre fatto, bisogna creare il "caso", quanto più pietoso possibile, per far vedere la malvagità di quanto i costituenti prolife hanno stabilito.
Cosa c'è di meglio, allora, di una ragazzina di sedici anni incinta e affetta da leucemia? E quale conclusione più eloquente della sua triste vicenda è quella che circola in internet (noi l'abbiamo trovata su Giornalettismo): "La ragazzina che non poteva abortire è morta. 21/08/2012 - Finisce in tragedia la storia di Esperanza, malata di leucemia e "condannata" dalle leggi della Repubblica Dominicana". "Leggo" scrive, lo stesso giorno: "La legge della Repubblica Dominicana l'ha fatta morire, perché Rosa Hernandez non ha potuto curarsi come avrebbe dovuto, essendo l'aborto tassativamente vietato". TGCOM 24, sempre il 21 agosto, riferisce: "È morta così Esperanza, la ragazza domenicana di 16 anni incinta e malata di leucemia: i medici hanno deciso di non sottoporla al ciclo di chemioterapia che probabilmente la avrebbe salvata dal tumore causando però la morte del bimbo che aveva in grembo".
Ecco qui: i cattivi legislatori reazionari e cattolici, che preferiscono tutelare la vita degli embrioni e si dimenticano di quella delle povere ragazze.

La fonte delle notizie (almeno quella che abbiamo trovato in rete) è la CNN (la notizia è rimbalzata su numerose agenzie statunitensi), ma dagli stessi servizi dell'emittente (del 25 e 26 luglio e del 17 agosto) e da altre notizie pubblicate solo nella Repubblica Dominicana si scopre che la vicenda è ben diversa.

Il 25 luglio scorso la CNN riferiva che "al Semma Hospital di Santo Domingo una ragazza di 16 anni sta morendo di leucemia acuta. I medici affermano che la ragazza necessita di un trattamento chemioterapico aggressivo. Ma c'è un problema: l'adolescente è alla nona settimana di gravidanza e il trattamento molto probabilmente porterebbe all'interruzione della gravidanza, una violazione della legge dominicana antiabortista". Come si può vedere, l'esecuzione di un aborto volontario non è mai stata presa in considerazione dai medici che, piuttosto, erano consapevoli dell'effetto che la chemioterapia intensiva avrebbe potuto avere sul feto (in effetti, la povera ragazza ebbe un aborto spontaneo poche ore prima di morire). Eppure il servizio insisteva sull'impossibilità di effettuare l'aborto: la madre si lamentava che i medici non eseguissero l'aborto e (ovviamente?) gli oppositori rimettevano in discussione la normativa. Tale Victor Terrero sosteneva che "gli aborti clandestini stanno mettendo le vite di molte donne a rischio" e aggiungeva che la Costituzione avrebbe dovuto essere subito modificata. Cosa c'entri l'aborto clandestino in questo caso lo sa solo lui.
Quello che sorprende è il modo del tutto generico con cui viene presentato il presunto ritardo nelle cure e la facilità con cui si giunge alla conclusione: ritardo delle cure - morte della ragazza.
Ma, dal servizio del 26 luglio, si scopre che la chemioterapia era già iniziata la sera del 24 luglio (nonostante il TGCOM 24 sostenga che il trattamento non sia stato effettuato): quindi il primo servizio della CNN era intervenuto a sollevare polemiche quando il problema era già stato affrontato e risolto.
Nel terzo servizio del 17 agosto (quello che riferisce della morte della giovane), si sostiene che  il trattamento di chemioterapia era iniziato "circa" 20 giorni dopo il ricovero in ospedale; ma senza tenere conto che, come dichiarato dal Dr. Amarilis Herrera, presidente of the Dominican Medical College, già il 18 luglio vi era stato un incontro all'ospedale con i sanitari per valutare il caso e lavorare insieme per trovare una soluzione e che campioni di midollo osseo erano stati inviati negli Stati Uniti al fine di individuare il migliore trattamento terapeutico.

Insomma: nessun ritardo accertato e, soprattutto, la assoluta mancanza di prove che tale presunto ritardo abbia comportato la morte della giovane. Per di più, il collegamento tra la disposizione costituzionale e tale (presunto) ritardo è del tutto teorico. L'autore della riforma costituzionale, Pelegrin Castillo, l'aveva fin da subito osservato: "E' un dibattito artificioso; abbiamo detto chiaramente che in questo caso i medici sono autorizzati dalla Costituzione a sottoporre a trattamento il paziente: essi hanno il compito di proteggere entrambe le vite"; così come, fin dal 24 luglio, il responsabile della Pastorale Giovanile della diocesi aveva diffuso un comunicato in cui chiariva che dal punto di vista morale sussiste "il principio del doppio effetto", che è "un'azione per ottenere un bene, ma che può portare a qualcosa di negativo. In questo caso il bene è curare la salute della madre adolescente, mentre il male possibile potrebbe essere la morte del feto. La cosa importante è cercare di salvare la vita di entrambi, naturalmente prestando attenzione prima a colei che è malata, la donna incinta (...). Nel caso che, assistendo la madre e usando la dovuta cura e diligenza per salvare la vita del bambino, quest'ultimo muoia, non sarà stata posta in essere nessuna azione punibile, né moralmente, né legalmente"

Questa diligenza nel curare entrambe le creature era stata posta in essere dai medici, fin dall'invio dei campioni negli Stati Uniti. L'ospedale aggiornava pubblicamente le notizie sulla condizioni di salute, (con comunicati del tutto ignorati dalla CNN e dalle altre agenzie americane): il 28/7/2012 riferiva che il quadro appariva stabile, ma che era stata necessaria una trasfusione di sangue; il 2/8/2012 un ematologo riferiva che la giovane aveva reagito con successo a trattamenti ancora più forti; i medici esprimevano un certo ottimismo, anche se non escludevano che il bambino potesse subire delle malformazioni in conseguenza della chemioterapia; il 7/8/2012, invece, la situazione iniziava a precipitare: si riferiva che nell'ultima settimana piastrine e globuli bianchi erano scesi e si invitavano le persone a recarsi con urgenza alla clinica per donare sangue. La paziente veniva tenuta in una stanza speciale per proteggerla da ogni tipo di contaminazione.

Come si è detto, purtroppo la ragazza moriva la mattina del 17 agosto: il suo corpo non aveva reagito alla chemioterapia e vi era stata anche una crisi di rigetto durante una trasfusione; la situazione era precipitata fino a quando era sopraggiunto un arresto cardiaco. La CNN riprendeva, allora, la notizia, nuovamente enfatizzando il presunto ritardo nel procedere alle cure e concludendo l'articolo con il richiamo alla norma della Costituzione "incriminata".

Insomma: un caso creato ad arte, perché nessuno aveva mai vietato ai medici di agire con la chemioterapia, né la norma costituzionale imponeva affatto che la ragazza venisse lasciata morire senza cure solo perché era incinta.
Rispettiamo, invece, la verità dei fatti e piangiamo - noi, davvero, senza lacrime di coccodrillo - due giovani vite che la medicina non è riuscita a salvare!

Giacomo Rocchi

sabato 18 agosto 2012

PAROLE: EUTANASIA \5

Concludiamo la riflessione avviata dopo l'intervista a Beppino Englaro apparsa su Il Venerdì di Repubblica dl 27 luglio scorso. In quell'intervista Englaro sosteneva che la morte procurata di sua figlia non aveva niente a che fare con l'eutanasia;indicava, poi, le "parole chiave" per interpretare quella vicenda: il "diritto di rifiutare le cure" come frutto dell'incontro tra diritto e medicina, da lui auspicato e ricercato.
Un nuovo diritto, quindi, finalmente riconosciuto; un diritto che si dovrebbe ritenere "personalissimo", perché ha a che fare con la decisione della persona sulla sua vita e la sua morte. Nei post precedenti abbiamo notato come la tendenza sia esattamente quella opposta: quella di attribuire ad altri il potere di decidere se una certa persona - malata, disabile, "imperfetta" - non tanto debba essere curata, ma direttamente sia "degna" di continuare a vivere, o sia "meglio per lei" (il famoso "best interest") che la sua vita venga meno. Beppino Englaro, in realtà, è il massimo esempio in Italia di questa linea.

Qui, però, vogliamo fare un'ultima riflessione, che riguarda le decisioni dei pazienti sulle proprie cure: siamo sicuri che l'impostazione del problema giusto sia davvero quello del "diritto" (di accettare o rifiutare le terapie)? Di fronte alla malattia e alla sofferenza, di fronte alla paura di morire, al timore di affrontare una malattia lunga e dolorosa o un'operazione chirurgica rischiosa ma necessaria, quali diritti abbiamo? In realtà nessuno: abbiamo, piuttosto, sentimenti, timori, necessità di sostegno morale e psicologico, di consigli di carattere medico e non, di qualcuno che pianga insieme a noi ...
Il "diritto", la formalizzazione di una certa situazione in una formula giuridica, è quanto mai lontana dall'esperienza umana, che è ben altro. L'esperienza della malattia grave richiama, soprattutto, quel rapporto tra medico e paziente, quell'alleanza terapeutica in cui il medico, se il paziente di lui ha fiducia, mette tutta la sua professionalità e tutta la sua umanità per arrivare, insieme al malato, a decisioni giuste e ben ponderate.
Ma la rivendicazione del "diritto a rifiutare le terapie" si accompagna alla demonizzazione del "medico paternalista", quello che - si sostiene - decide per conto suo senza rendere partecipe il paziente; il medico che viene evocato, invece, è quello che "rispetta la volontà del paziente"; quello che "dice di sì", come Mario Riccio che, dicendo di sì a Piergiorgio Welby lo uccise (o come quei medici che sarebbero "buoni" se "non obbiettano" e dicono di sì, in ogni caso, alla volontà della donna di uccidere il bambino che cresce ne suo grembo ...).

Il fatto è che, allontanandoci così dal medico, che si limita ad aspettare i nostri ordini, noi rimaniamo soli, soli a prendere decisioni troppo pesanti per noi.
Ecco che, al "diritto a rifiutare le cure" spesso non si accompagna la "libertà di prendere le decisioni" e ancora più spesso siamo invitati a prendere decisioni terapeutiche senza un'adeguata informazione.
L'anziano abbandonato nell'ospizio sarà davvero libero di rifiutare le cure o moralmente si sentirà obbligato a togliersi di mezzo perché si sentirà un peso per i suoi familiari e per la società? E i genitori di un neonato prematuro, quando il medico dirà loro: "si può salvare, ma potrebbe restare disabile per tutta la vita, decidete voi cosa fare", saranno davvero liberi nel decidere, avranno avuto tutte le informazioni necessarie, avranno compreso le percentuali di probabilità e la natura della possibile disabilità del figlio? E coloro che firmano, in piena salute, il testamento biologico, rifiutando ora per allora le terapie nel caso si trovassero in una determinata situazione, davvero conoscono quella condizione; davvero possono escludere che, se fossero in quella condizione, preferirebbero continuare a vivere?

Il "diritto a rifiutare le cure" si trasforma facilmente nel suo contrario: l'obbligo a farlo o, spesso, una decisione adottata senza adeguata informazione.
Ma non vediamo che è proprio questo che i fautori dell'eutanasia vogliono? Essi vogliono che noi decidiamo di morire, credendo di avere esercitato un nostro diritto ...

Giacomo Rocchi

venerdì 17 agosto 2012

Eugenetica moderna


Il tentativo di far passare l'eugenetica come una possibilità accettabile è sempre più evidente.
Secondo il sentire comune l'eugenetica è abominevole perché è legata al nazismo. Infatti Hitler l'ha messa in pratica sopprimendo i deboli, poi gli indesiderabili, poi quelli che avrebbero avuto una vita non degna ed infine si trasformò nella Shoah. Ora però il capofila della Consulta di bioetica (che non è il Comitato Nazionale di Bioetica, organo consultivo del Governo) il neurologo Carlo Alberto Defanti, quello che accompagnò la povera Eluana Englaro alla tragica fine che conosciamo, sostiene che bisogna superare il tabù dell'eugenetica. Cioè ci si deve ragionare senza “dogmi” e “interdizioni”. La sua tesi è che le pratiche razziste e criminali non sarebbero la conseguenza dell'eugenetica in sé ma solo del venir meno delle garanzie liberali e democratiche dello Stato nazista. Oggi, dice Defanti nel suo libro “Eugenetica: un tabù contemporaneo”, l'eugenetica di Stato non si pone nel mondo occidentale  perché non ci sono totalitarismi. La medicina moderna mettendo a disposizione senza costrizioni i test genetici ripropone un'eugenetica moderna e liberale che può essere usata dai cultori della “libertà di scelta”. Naturalmente questa tesi è messa in discussione dai sostenitori della “sacralità della vita” che secondo Defanti non vogliono accettare “contraccezione, aborto, eutanasia” come scelta individuale. Come da sempre diciamo è stato proprio l'aborto ad aprire la strada delle “scelte individuali” garantite dallo Stato, che oggi arrivano anche alla cosiddetta “eugenetica liberale”.
L'argomento è diventato attuale perché nella zona di Padova da circa 12 anni si fa una campagna d'offerta del test genetico per scoprire la fibrosi cistica. Il risultato è che si sono effettuati migliaia di test per la fibrosi cistica e i bimbi nati con fibrosi cistica sono pochissimi, mentre in altre zone dove si propongono i  test solo ai parenti dei malati la fibrosi cistica è presente. La fibrosi cistica è una malattia congenita che due genitori portatori sani della mutazione sul gene 7 trasmettono una volta su quattro (per il 25 %) al bimbo. La malattia se diagnosticata nel neonato è controllabile  pur restando una malattia seria perché causa problemi soprattutto respiratori dato che il muco bronchiale è molto vischioso e si infetta facilmente.
L’eugenetica moderna elimina il feto con la fibrosi cistica  (o l’embrione sottoposto a diagnosi pre impianto positiva nella fecondazione artificiale) ma non la malattia perché la mutazione del gene 7 è possibile comunque.
I cultori dell’eugenetica liberale in uno Stato democratico la estenderebbero  anche ad altre malattie, e questo per loro sarebbe un progresso non coercitivo della medicina.
Quali malattie genetiche saranno accettate e quali no ?
Chi metterà il limite ?
I test genetici saranno a carico del Sistema Sanitario Nazionale ? (cioè pagati da tutti).
Ai genitori che accolgono un bimbo malato saranno negate le cure o fatte pagare ?
Avremo finalmente una società senza malattie congenite ?
Come si intuisce il vero progresso sta nel trovare la cura della malattia, ed è in questa direzione che dobbiamo indirizzare la vera medicina.

Gabriele Soliani

sabato 11 agosto 2012

PAROLE: EUTANASIA \4

Proseguiamo la riflessione sull’intervista di Beppino Englaro a “Il Venerdì di Repubblica” del 27/7/2012. Abbiamo visto che l’indicazione del “diritto a rifiutare le cure mediche” come elemento distintivo per qualificare la morte procurata come eutanasia (illecita) o non eutanasia (esercizio di diritto) provenga da chi: nega l’evidenza, cioè di essere stato autorizzato ad uccidere la figlia e di averlo fatto; ha impedito la somministrazione non di cure mediche, ma di sostegno vitale alla figlia; ha provocato la morte della figlia non in base ad una volontà espressa in maniera valida dalla figlia, ma in base ad una sua decisione; ha basato la sua decisione sulla convinzione che la figlia fosse “sostanzialmente morta”.
Abbiamo anche visto che il presupposto della volontà del paziente di rifiutare le terapie, così come è avvenuto nel caso Englaro, è messo da parte senza troppi problemi in altre situazioni, prima fra tutte l’eutanasia dei neonati, nella quale i genitori vengono brutalmente invitati a scegliere (così come la madre nel corso della gravidanza nell’aborto eugenetico), sulla base di loro criteri sulla “dignità della vita”, se “vale la pena” che il bambino continui a vivere o se “è meglio” che muoia.
Ma se questa è la chiara tendenza, come possiamo essere tranquilli che davvero le nostre opzioni saranno rispettate? Come possiamo non dubitare che quei nostri concittadini che si sgolano a ripetere: “la vita è nostra! Vogliamo decidere noi!” e che, magari, si precipitano a firmare i “testamenti biologici” (del tutto invalidi giuridicamente) istituiti da alcuni Comuni, altro non siano che degli “utili idioti”? “Utili” a coloro che vogliono avere le “mani libere e pulite” quando decideranno (loro, non chi ha lasciato il testamento biologico …) che è il momento di farla finita?

Due esempi dall’estero per rendere più bruciante questo dubbio? Due studi pubblicati dal Canadian Medical Association Journal (CMAJ) hanno rivelato che in Belgio la metà circa dei procedimenti di eutanasia praticati nei confronti di malati terminali avverrebbe senza il consenso dei pazienti, e che in molti casi sono le stesse infermiere, al posto dei medici, a dare la morte, anche quando non è richiesta; un primo studio statistico indica che su 208 decessi per eutanasia, 142 sono risultati consenzienti, e 66 privi di una preventiva autorizzazione da parte del paziente. Una preventiva discussione con il paziente (che non aveva però dato il consenso) era stata avviata dai medici solo nel 22% dei casi; negli altri casi le giustificazioni erano le più varie: i pazienti erano in stato comatoso o in stato di demenza; ma altre ragioni sulla mancata discussione preventiva sono state individuate dagli stessi medici nel fatto che la decisione di effettuare l’eutanasia corrispondesse comunque, secondo il loro giudizio professionale, al “best interest” del paziente (17,0%), e perché lo stesso fatto di affrontare l’argomento sarebbe stato dannoso per lo stato psicofisico del malato (8,2%) (!). Un secondo studio statistico dimostrava che un quinto delle infermiere in Belgio aveva praticato l’eutanasia sui pazienti, e metà di loro lo aveva fatto senza il consenso della vittima.

Negli Stati Uniti, invece, i “do not risuscitate” (coloro che hanno scritto un testamento biologico) sono stati individuati come “categoria” (a prescindere da quello che avevano scritto …) insieme a quelle degli anziani, dei pazienti in dialisi e dei pazienti con severe patologie neurologiche, cui negare il ricovero nelle strutture ospedaliere, o negare l'uso dei respiratori artificiali in caso di epidemia incontrollabile, con necessità di razionamento forzoso delle cure (“La Repubblica”, 26/10/2009 con riferimento ai piani sanitari predisposti quando la crisi dell’influenza A sembrava fuori controllo).

Davvero il “diritto a rifiutare le cure mediche” (e, quindi, quello a non rifiutarle!) è la “formula magica”, quella che permetterà a ciascuno di essere curato al meglio, secondo i suoi desideri, quella che sarà in ogni caso rispettata?
Temiamo proprio di no: perché la spinta all’eliminazione delle persone “inutili”, costose per la collettività, che sono un “peso” (economico e psicologico) per la famiglia e per la società è sempre più forte.

Il fatto è che l’esistenza di un “consenso” o di un “rifiuto” attribuibile al paziente resta necessario: pensate che qualche legislatore – o qualche amministratore di ospedale – abbia il coraggio di mettere – nero su bianco – che “i disabili psichici gravi (o i soggetti particolarmente anziani, o in stato di demenza senile, o i neonati disabili, o ancora qualche altra categoria) non devono essere curati e devono essere lasciati morire”? Non siamo mica all’eugenetica nazista!

Occorre, quindi, il paravento di un consenso. Ma allora, il “rifiuto delle cure” invocato da Beppino Englaro è un diritto o, piuttosto, un dovere?

Giacomo Rocchi

venerdì 3 agosto 2012

PAROLE: EUTANASIA\3

Davvero la formula “diritto di rifiutare le cure mediche” fornisce il discrimine tra ciò che è eutanasia e ciò che non lo è? Oppure – come sostenuto nel precedente post, con cui abbiamo continuato a commentare l’intervista di Beppino Englaro a Il Venerdì di Repubblica del 27/7/2012 – il rischio è che, così come per la morte procurata di Eluana Englaro, questa formula nasconda il “via libera” ad uccisioni decise da soggetti differenti da chi viene ucciso, soggetti autorizzati a provocare la morte della vittima non in conseguenza di scelte terapeutiche, ma in forza di personali opinioni sulla sua qualità della vita?


Il dato comune a tutte le ipotesi che potenzialmente possono rientrare nell’eutanasia è, semplicemente, la condotta di una persona che decide e provoca consapevolmente la morte di un’altra persona. Altri elementi che sembrerebbero imprescindibili, ad un esame più approfondito non lo sono: ciò vale per lo stato di malattia della vittima e per la sua sofferenza e, soprattutto, per il dato della volontà di morire della vittima e per quello della manifestazione di questa volontà.

L’eutanasia dei neonati – solitamente quelli prematuri, per i quali la prognosi di sopravvivenza in conseguenze di terapie intensive si accompagna alla previsione di disabilità più o meno gravi – è una buona cartina di tornasole per saggiare la solidità della formula evocata da Beppino Englaro.
In quei casi la decisione viene affidata ai genitori e, quindi, si prescinde del tutto dalla volontà della vittima, senza che ciò faccia scandalo, come se la potestà genitoriale comprendesse anche la facoltà di decidere la morte del figlio: eppure la “volontà presunta” del bambino è facilmente desumibile dall’attaccamento alla vita (la “vitalità”) che i neonati manifestano (salvo che siano neonati terminali, la cui morte è inevitabile).
Non basta: ai genitori viene attribuita la facoltà di rifiutare tutte le cure mediche per il figlio e ciò fa comprendere che la decisione non è “terapeutica”, ma riguarda la vita o la morte. Il criterio proposto è quello che le madri di feti “imperfetti” vengono autorizzate ad adottare nel cosiddetto “aborto terapeutico”, che altro non è che aborto eugenetico (osserviamo l'antilingua usata anche per questa pratica): qualità della vita futura del bambino e dei genitori, insopportabilità della prospettiva di una condizione di handicap che possa durare per molti anni. Esattamente lo stesso giudizio sulla “dignità” della vita che ha permesso ad Englaro di provocare la morte della sua “assistita”.

Anche il richiamo alle “sofferenze intollerabili” del paziente, quale criterio per giustificarne l’uccisione “pietosa” è, in realtà, spesso equivoco e crea una cortina fumogena per nascondere criteri ben diversi. Mettiamo da parte il tema dei pazienti terminali, coloro che una malattia inguaribile e progressiva sta conducendo verso una morte imminente e inevitabile: per essi, ovviamente, è buono e necessario, oltre alla attenuazione del dolore fisico per quanto possibile, l’astensione da terapie invasive e dolorose, inutili a salvare loro la vita. Ma, salvo questo caso, come non dubitare che, spesso, le sofferenze siano “intollerabili” non per chi le sopporta, ma per chi lo assiste? Ancora: come non accorgersi che, spesso, di fronte a patologie gravissime e persistenti, ad essere sentita come “intollerabile” da chi circonda il paziente sia, in realtà, la prosecuzione della sua esistenza?
Del resto, anche il termine “sofferenza” rischia, in quest’ottica, di essere sganciato dal substrato oggettivo: Eluana Englaro, nella sua condizione di disabile psichica amorevolmente accudita dalle Suore, “soffriva”? Si può davvero escludere che, al contrario, ella fosse “felice”?

E' necessario continuare a scavare questo tema. A leggere l'intervista di Beppino Englaro il quadro sembra chiaro: l'uccisione della figlia Eluana è parte di un percorso di civiltà, di riconoscimento di diritti, che vengono ostacolati solo da forze retrive, oscurantiste. Chi ha qualche anno in più, o chi conosce la storia, sorride rispetto al continuo ricomparire del mito del progresso, di un ennesimo sole che si intravede all'orizzonte ...
La risposta, però, può e deve essere ragionata e razionale: e non pare difficile, rispetto a mistificazioni della realtà e delle parole che si intravedono appena sotto la patina dorata ...

Giacomo Rocchi

mercoledì 1 agosto 2012

PAROLE: EUTANASIA \2

Cosa si intende quando si parla di “eutanasia”? Ha ragione Beppino Englaro (la cui intervista su Il Venerdì di Repubblica del 27/7/2012 abbiamo iniziato a commentare nel precedente post), quando sostiene che l’uccisione della figlia Eluana, con l’eutanasia “non c’entra un fico secco”?

Proviamo a fare un elenco dei casi che, in qualche modo, hanno a che fare con l’eutanasia: quella eugenetica messa in atto dal regime nazista (e non solo da quello), l’uccisione per pietà dei malati sofferenti o l’aiuto prestato al loro suicidio, il diritto al suicidio per i sani, il trattamento dei malati terminali e il divieto di accanimento terapeutico, la mancata rianimazione dei neonati estremamente prematuri, l’omissione di terapie e di sostegno vitale ai disabili fisici o a quelli psichici (compresi quelli nel cosiddetto “stato vegetativo”), il rifiuto delle terapie e/o del sostegno vitale da parte dei pazienti o dei sani, la facoltà per i tutori e i genitori di impedire terapie per gli interdetti e i figli minori, il testamento biologico, le dichiarazioni anticipate di trattamento.

Beppino Englaro chiarisce, in altri passaggi dell’intervista, quali sono i tratti distintivi della sua vicenda, quelli che la renderebbero diversa da un caso di eutanasia: la sentenza della Cassazione “ci ha dato il diritto a dire no alle cure”; egli aveva vissuto la “tragedia della responsabilità. Quali scelte fare e quali no in una situazione limite”; ma “noi genitori non avevamo dubbi sulla decisione di rifiutare le cure”. Il motivo per cui non vi sono stati altri “casi Englaro”? “Perché occorreva, per sentenza, che ci fosse una condizione irreversibile e la certezza della volontà del paziente. Quanti giovani si sono espressi sul rifiuto delle cure? Lei, però, l’aveva fatto”. Secondo Beppino Englaro, infatti, “Eluana, che era forte e intelligente, pur essendo credente, metteva al centro non la sacralità, ma i diritti umani di libertà, di responsabilità e di scelta”.
La parola d’ordine, quindi, è: diritto di rifiutare le cure mediche, libertà di questo rifiuto; questo è il risultato “giusto” che si ha quando “diritto e medicina si incontrano” ; Englaro sostiene di avere voluto questo incontro fin dal 1992, anno dell’incidente della figlia.

Se rileggiamo l’elenco fatto all’inizio, quindi, possiamo intuire quali siano le pratiche che Beppino Englaro qualifica come eutanasia, “che è un reato”: quella eugenetica, ovviamente; ancora, l’uccisione diretta dei pazienti (il rifiuto delle cure può portare soltanto ad ometterle, non può portare ad azioni specificamente volte alla morte del paziente); poi la sospensione delle cure e delle terapie nei confronti di soggetti che non l’hanno chiesto; infine – parrebbe di capire – l’aiuto al suicidio o l’omicidio di chi l’ha chiesto per ragioni di carattere non medico.

La “memoria di Eluana” – ora che è stata uccisa, è memoria di tutti, e non solo del padre – impone di scavare più a fondo, di non fermarsi alle parole d’ordine di chi ha avuto ragione in un giudizio privo di un effettivo contraddittorio (il curatore speciale nominato proprio per garantirlo, si associò alla richiesta del tutore di far morire la figlia fin dalla prima udienza) e di sottolineare qualche punto che Beppino Englaro lascia cadere nell’intervista: l’uso dell’espressione “cure”, per ricomprendere acqua e cibo nelle “terapie”, così da presentare il rifiuto opposto dal tutore come attinente al campo medico; ma anche la duplicazione dei soggetti che avrebbero deciso (la figlia che “si era espressa sul rifiuto delle cure” o i genitori, che si sono assunti la “responsabilità di prendere la decisione di rifiutare le cure”?); e, soprattutto, la qualificazione della condizione di Eluana Englaro dopo l’incidente come “situazione limite”, “zona di confine tra vita e morte”. Sappiamo bene che, fin dal 1992, Beppino Englaro riteneva la figlia “morta” (“Ogni giorno, da quasi diciassette anni, facciamo visita alla sua tomba: nostra figlia è morta il giorno dell’incidente; non sarà la sepoltura del suo corpo a dirci che lei non c’è più”, La Stampa, 14 novembre 2008).

L’analisi del caso Englaro permette, non a caso, di giungere a conclusioni che toccano proprio questi punti: i Giudici autorizzarono Beppino Englaro a decidere, ritenendo irrilevante la volontà manifestata da Eluana Englaro; la decisione non aveva affatto a che fare con il rifiuto di terapie ma riguardava direttamente l’uccisione della disabile; la decisione venne affidata a chi esplicitamente sosteneva che la condizione in cui l’interdetta si trovava – lo stato vegetativo persistente – non era degna di essere chiamata vita, tanto da ritenere del tutto inutile qualunque cura o terapia.

Quindi: decisione di vita o di morte lasciata a soggetto diverso dall’interessato, adottata per motivi riguardanti le condizioni fisiche e psichiche della vittima. “Libertà di vivere o di morire” affidata ad altri e ai loro criteri di “dignità della vita”.
Non è che, l’essenza dell’eutanasia è (quasi) sempre questa?
Cercheremo di vederlo.

Giacomo Rocchi

sabato 28 luglio 2012

PAROLE: EUTANASIA /1

“L’eutanasia non c’entra un fico secco. Ed è un reato. Ma volete che i magistrati della Cassazione ci abbiano autorizzato ad uccidere? Questo continuo ribaltare le cose non giova a nessuno e dovrebbe fare ribrezzo a chi lo pratica”.


Così Beppino Englaro liquida (Il Venerdì di Repubblica, 27/7/2012) la domanda che l’intervistatore, nel fare riferimento alla morte della figlia Eluana, gli pone, riferendo che “alcuni polemisti parlano di eutanasia”.
Il cattivo maestro, che consapevolmente ha deciso di trasferire la decisione sulla vita di sua figlia “nella società”, merita di essere letto, per capire cosa davvero è avvenuto e cosa potrebbe avvenire.
Englaro richiama, senza spiegarlo, un concetto di “eutanasia”, che giudica una pratica cattiva (“è un reato”; detto da colui che si è rivolto ai giudici è sicuramente un giudizio negativo); non lo chiarisce, ma sostiene che ciò che ha fatto è una cosa tutta diversa.
Che si tratti di mistificazione, si comprende dalla pretesa di falsificare la realtà, accompagnata – ovviamente – dall’accusa agli altri di “ribaltare le cose”: infatti, secondo Beppino Englaro, i giudici della Cassazione “non l’hanno autorizzato ad uccidere” la figlia.

Diamo per scontato che il riferimento sia al complesso delle decisioni della Cassazione e della Corte d’appello di Milano (furono i giudici di Milano ad autorizzare l’Englaro a procedere, in attuazione della precedente sentenza della Cassazione), e domandiamoci: cosa hanno autorizzato i giudici? La risposta – è banale, ma le cose vere devono essere ricordate e ribadite – passa attraverso alcuni gradini.

Eluana Englaro era viva? Si.
Stava per morire per una malattia progressiva e incurabile e giunta alla fase terminale? No.
Era in grado di nutrirsi, dissetarsi e curarsi da sola? No.
C’era chi la nutriva, la dissetava, la curava? Si.
Beppino Englaro è stato autorizzato a sospendere nutrizione, idratazione e cure? Si.
I giudici avevano permesso ad altri di nutrirla, dissetarla e curarla? No.
Un uomo o una donna, in qualunque condizione si trovi, può sopravvivere senza nutrizione e idratazione? No.

E allora: come vogliamo chiamare l’autorizzazione data dalla Corte di Milano a Beppino Englaro? Vogliamo dire che i giudici hanno autorizzato il tutore a sospendere nutrizione e idratazione ad una disabile che non era in grado di nutrirsi e idratarsi da sola, permettendogli, altresì, di impedire ad altri di farlo, e ciò fino a quando fosse sopraggiunta la morte della figlia?
Diciamo pure così: ma se una persona ha in custodia un neonato o un disabile grave, lo chiude in una stanza che chiude a chiave e il neonato o il disabile muore, cosa ha fatto la persona che lo aveva in custodia? Lo ha ucciso.

I Giudici hanno autorizzato Beppino Englaro ad uccidere sua figlia e Beppino Englaro l’ha uccisa.
Partiamo dalla realtà dei fatti.

Ma l’uomo che è stato autorizzato, su sua richiesta, ad uccidere sua figlia, e che ha utilizzato questa autorizzazione, non è soddisfatto; come tutti sapevano avrebbe fatto, la butta in politica (anche spicciola: non è puntuale l’attacco al governatore della Lombardia?) per fare “una sorta di rivoluzione”: contrappone “inviolabilità della persona” alla “indisponibilità della vita”, spingendosi ad affermare che sulla persona della figlia “si sono accaniti oltre ogni decenza”, ma rifiutando di rispondere all’affermazione che la morte di Eluana Englaro sia avvenuta “di fame e di sete” (“Ma quale fame, e quale sete … Non sanno di cosa stanno parlando”: di che è morta, sig. Englaro, sua figlia?).

Si arriva, quindi, all’eutanasia. Comprendiamo che la legalizzazione di ciò che ha fatto Beppino Englaro e che vorrebbero fare i suoi epigoni passerà attraverso la criminalizzazione di una pratica, sostenendo che l’uccisione delle persone è cosa diversa.
Vedremo, allora, se davvero quella dell’Englaro è stata eutanasia e se è possibile distinguere tra le varie uccisioni delle persone.

Giacomo Rocchi

giovedì 19 luglio 2012

Comitato permanente unitario


Marcia per la vitaLeggo sulla pagina Vita di Avvenire del 5 luglio che il Movimento per la Vita propone la costituzione di un comitato unitario permanente per l’organizzazione di una manifestazione pro life per il maggio del prossimo anno. Tale comitato dovrebbe prendere gli opportuni contatti con i Movimenti che hanno promosso la marcia del 13 maggio 2012. Si eviterebbe in questo modo di organizzare due eventi, come è successo quest’anno e si punterebbe tutto su di uno. Cercare di fare unità è importante, va sempre bene, e poi è apprezzato da tutti.
Sembrerebbe, tutto sommato, una buona idea. Ma qualcosa non mi torna.
Ripenso alla lunga querelle che in questi ultimi due anni ha opposto il Movimento per la Vita italiano a Federvita Piemonte e che si è conclusa con la costituzione, da parte di Carlo Casini, di una nuova Federazione piemontese antagonista di Federvita Piemonte. Solo perché, tra i membri del direttivo, Federvita Piemonte annovera alcuni appartenenti al Comitato Verità e Vita.
Per questo oggi in Piemonte ci sono due Federazioni di MpV e di CAV.
In nome dell’unità?
Ripenso ai MpV e ai CAV piemontesi espulsi dal Movimento per la Vita nazionale, solo per aver rifiutato di prendere la distanze da Verità e Vita.
In nome dell’unità?
Oggi quei CAV, che continuano come sempre a strappare bambini all’aborto, alla richiesta di un Progetto Gemma per una mamma a rischio di aborto, si sentono rispondere, senza nessuna considerazione per la gravità e l’urgenza del caso, che, in quanto espulsi, fanno parte di una lista speciale e riceveranno qualcosa se e quando saranno evase tutte le richieste della lista ufficiale.
In nome dell’unità?
Grosso problema si pone poi per lo stesso Comitato Verità e Vita. Alla marcia del 13 maggio ha aderito entusiasticamente ed ha partecipato in gran numero. Potrà mai, secondo il concetto di unità di Carlo Casini, far parte del costituendo comitato unitario permanente per l’iniziativa del prossimo anno, stante il proclama che il Nostro, sempre nel corso della vicenda su citata, ha lanciato, chiedendo agli associati del Movimento per la Vita italiano “di fare attenzione ai rapporti che Verità e Vita volesse proporre”. Di starne alla larga, insomma?
Marisa Orecchia
Presidente di Federvita Piemonte
Vice presidente del Comitato Verità e Vita

mercoledì 18 luglio 2012

Consigli utili per diffondere l’eutanasia


Riportiamo qui di seguito, preceduti solo da brevi commenti, alcuni stralci del resoconto dell’Associazione LiberaUscita, associazione favorevole all’eutanasia, del meeting biennale della World Federation Right To Die Societies, svoltosi a Zurigo il 14 Giugno scorso. Si tratta di un congresso mondiale, alla sua 19° edizione, che vede riunite tutte quelle sigle favorevoli alla dolce morte. Il report è interessante perché mette in luce quali sono le strategie a livello mondiale per diffondere sempre più le pratiche eutanasiche in ogni angolo della Terra. Ecco la sintesi degli interventi redatta da Rossana Cecchi, delegata di LiberaUscita al meeting svizzero.

  1. Per vincere sul suolo nazionale è più veloce e facile vincere in Europa: “la WF è stata fondata a Melbourne nel 1982. Dieci anni dopo è stata fondata la RtDE [Right-to-Die Europe] in Olanda e ratificata nel 1994 a Londra come branca della WF. Ho colto l’occasione per riferire la necessità, avvertita da LiberaUscita, di stringere relazioni con il Parlamento Europeo. Lui [il responsabile della RtDE] ha risposto che la RtDE ha chiesto al Parlamento europeo di essere ammessa fra le Organizzazioni Non Governative Europee (NGO) [il Consiglio d’Europa ha già respinto comunque la richiesta]. E’ quindi importante che le varie associazioni spingano sui rappresentanti del propri paesi nel Parlamento europeo affinché la richiesta RtDE venga accolta”
  2. La battaglia sull’aborto è fonte di ispirazione: “Morire a casa, dire addio ai propri cari, morire con serenità, sicurezza, certezza: queste sono le cose fondamentali. La medicalizzazione del fine vita trasferisce invece la decisione finale ad altre persone.Non vi è alcun motivo per ‘medicalizzare’ la morte, es. con iniezioni letali. In tal modo si stressa il medico, si stressa il paziente. Nel trattamento per bocca il controllo e la responsabilità è invece della persona interessata, la dignità, la serenità e il tempo sono sue scelte, soltanto la fornitura del preparato viene fatta dal medico, tutto il resto spetta al richiedente (ho avuto modo di capire che ormai molti condividono questo punto di vista. Nei Paesi dove è legale aiutare a morire, i medici cominciano a rifiutarsi, a non sentirsela più. Per questo si sta andando verso la non medicalizzazione).” Quanto sin qui detto ricorda curiosamente l’aborto: “serenità, sicurezza, certezza” rimandano a quegli elementi polemici utilizzati dal fronte pro-choice prima del varo della 194 per convincere i più che abortire in clandestinità era pericoloso per la salute della donna: meglio un aborto alla luce del sole, pulito e in piena sicurezza, che lasciare l’utero delle donne in mano alla mammane. Poi il suggerimento a non medicalizzare la pratica eutanasica, esattamente come è avvenuto con l’introduzione della RU486 dove l’aborto è autogestito della donna ed è domestico: l’aborto orale genererà l’eutanasia orale.Notevole poi l’accenno allo stress del medico che pratica l’eutanasia: come per l’aborto ci sono sempre più medici che si rifiutano di prestare la loro opera perché consci che si stanno prestando ad un omicidio o suicidio.
  3. Come aggirare la legge: “Faye Girsh [un responsabile di Final Exit Network, organizzazione americana che promuove l’eutanasia] ha riferito che già nell’anno 1998 […] hanno formato 29 volontari che lavorano sul territorio. Vanno nelle case, contattano i richiedenti e danno informazioni sui trattamenti non medicalizzati. Attualmente i volontari sono più di 100. Non forniscono supporto attivo, ma solo informazioni e, quindi, non sono perseguibili. Hanno un comitato medico con più di 10 anni di esperienza, che indica loro a chi possono fornire informazioni e quali informazioni dare”
  4. L’unione fa la forza: “si rende necessario collegarsi con altre associazioni laiche, cosa che la nostra Associazione sta facendo, e condurre insieme una lotta comune per la libertà e i diritti civili dell’essere umano”
  5. Portare sul fronte pro-eutanasia anche la Chiesa cattolica: “Bernheim, oncologo palliativista belga, è stato bravissimo a spiegare come le cure palliative non siano in antitesi con il diritto di morire con dignità, bensì complementari [è come per l’aborto: nessuno è obbligato ad abortire = nessuno è obbligato a togliersi la vita. Teniamo aperta ogni possibilità]. Dove finiscono le prime inizia l’altro. Ho avuto modo di parlare a lungo con lui. E’ pronto a qualsiasi tipo di collaborazione ed a mettere a nostra disposizione l’esperienza belga con la chiesa cattolica.”
  6. Il tentativo poi è quello di non passare come spietati boia: occorre cioè porre in essere una commistione di iniziative percepite dalla gente come lodevoli insieme ad altre dirette invece a promuovere l’eutanasia, così come sta facendo l’Associazione LifeCircle “che promuove le cure palliative e aiuta le persone con handicap e [promuove] la dignità nel morire”. Insomma, il lupo deve travestirsi da agnello
  7. Colpiamo il cuore della cattolicità: l’anno prossimo andiamo a Roma. “Right to Die Europe meeting in Rome in 2013. A tale proposito ci hanno consigliato di contattare esperti in comunicazione per sapere in quale giorno della settimana possiamo avere più attenzione dai mass-media. Anche la location la lasciano decidere a noi: in Parlamento o in albergo, dipende dove riusciamo ad avere più giornalisti. Si rendono conto dell’importanza, in un paese come l’Italia, e a Roma, di avere visibilità. […] Aspettiamoci un bel po’ di gente a Roma, sono tutti entusiasti sia per la città sia perché si va in casa Vaticano”
  8. E’ importante tenere desta l’attenzione delle persone con celebrazioni ad hoc: “Il prossimo 2 novembre sarà il giorno europeo del fine vita (European end of life day). A Edimburgo si svolgerà una manifestazione ufficiale. E’ stato chiesto a tutti di organizzare qualcosa nel proprio paese, come ad es. scrivere un articolo sulla stampa”.

Domanda a piè di pagina di questo report: quali strategie di tale spessore per sconfiggere aborto, fecondazione artificiale, contraccezione hanno posto in essere i cattolici in questi anni?
Pur avendo nominalmente più forze in campo quali risultati hanno raggiunto?

Tommaso Scandroglio

giovedì 12 luglio 2012

Davvero l'aborto non è un diritto in Italia? Risposta ad Assuntina Morresi \3

Concludiamo con il presente post il commento ad un passo dell'intervista che Assuntina Morresi ha rilasciato al sito dell'UCCR. Come sempre abbiamo fatto, le argomentazioni sono sui contenuti dell'intervista, sul merito della questione. Certo, se alcune affermazioni vengono fatte da persone importanti, e che per di più rappresentano in qualche modo una "linea politica" (che è quella di Eugenia Roccella), l'urgenza di commentare diventa più forte. E' un "commento", con argomentazioni che ci sembrano pacate e razionali, non un "attacco"; è la segnalazione di un dissenso ragionato.
Assuntina Morresi, sul sito "strano cristiano", definisce i due post frutto di un "atteggiamento molto stupido"; successivamente definisce gli attacchi "divisivi" (in altre parole: esprimo un'opinione contraria alla sua), arroganti e un po' vili. Non commento gli aggettivi, se non esprimendo il mio stupore per il richiamo alla "viltà": la rete è un "luogo" dove circolano le idee e dove si commentano i fatti e le parole; è uno strumento bello e "democratico", perché permette a molti - che non hanno la possibilità di ricorrere ai mass media - di esprimersi. Non capisco cosa ci sia di vile in questo. D'altro canto, chi rilascia un'intervista ad un giornale (o, nel caso di specie, ad un sito web), evidentemente si aspetta che le parole che pronuncia siano lette e commentate.
La prof.ssa Morresi non riferisce il merito delle argomentazioni che espongo (non indica nemmeno che i due post sono apparsi su Notizie prolife: invece, voi sapete dove leggere le considerazioni della prof.ssa Morresi), accusa il sottoscritto di attaccare lei e non altri (un po' come quando uno trova il vigile che gli ha fatto la multa: perché non va, invece, a multare quelli là ...) e conclude: "Per combattere una legge bisogna innanzitutto conoscerla. Urlare “non la voglio, perché è ingiusta” (io l'ho fatto nel referendum del 1981, quello che abbiamo perso), lascia il tempo che trova e non porta a niente, anche se ha indubbiamente alcuni vantaggi: non ci si espone in modo pericoloso, e ci si sente a posto con la coscienza".

Spero che la prof.ssa Morresi abbia letto i due post in cui inizio a dimostrare di conoscere la legge 194. Le riflessioni - come preannunciato, di tipo giuridico - che espongo di seguito sono, comunque, il sunto di un contributo a "L'aborto e i suoi retroscena", a cura di Virginia Lalli e Alessia Affinito, IF Press, 2010. Sul tema dell'aborto ho scritto anche un contributo su "Legge 194, trent'ani dopo, Gribaudi, Milano, 2008".
Torniamo al testo dell'intervista: "“Cosa ne pensa di questi tentativi di limitare la libertà del medico?” «L’attacco all’obiezione di coscienza serve per far passare l’idea che abortire è un diritto. Nella legge 194, invece, l’aborto non è considerato un diritto, ma l’ultima opzione possibile nel caso di una maternità rifiutata. Stiamo parlando del testo di legge, e non della percezione che invece si ha, dell’aborto. Attaccare l’obiezione di coscienza nei termini in cui si sta facendo in questi ultimi mesi significa affermare che chi obietta lede un diritto, quello di abortire.»
Che la legge 194 crei un diritto della donna di abortire, almeno nei primi novanta giorni, si ricava da tre considerazioni, alle quali deve essere anteposta l'osservazione che perché sorga un diritto non è necessario che la legge lo stabilisca esplicitamente.
Il primo dato è quello della depenalizzazione dell'aborto volontario che non può non richiamare il principio penalistico stabilito dall'art. 51 del codice penale secondo cui "L'esercizio di un diritto ... esclude la punibilità". In effetti, la lievissima pena prevista per la donna maggiorenne (la minorenne è in ogni caso esente da pena) non è dettata per il caso di "aborto eseguito in assenza dei gravi pericoli per la salute della donna" (come sarebbe dovuto derivare dalla sentenza della Corte Costituzionale del 1975), ma solo per l'aborto eseguito senza seguire le procedure di legge.
Il secondo dato è l'esistenza di un dovere di eseguire l'aborto a richiesta della donna. Tutti sappiamo che, se qualcuno ha un diritto, qualcun altro ha l'obbligo di rispettarlo e, se richiesto, di attuarlo e nessuno può impedire che il diritto venga esercitato. Ebbene: la legge 194 prevede, appunto, che nessuno possa impedire alla donna di abortire se lo richiede (salvo l'obbligo di aspettare sette giorni ...): né il padre del bambino, né i genitori, né i medici. Questi ultimi, come abbiamo già visto, non possono rifiutarsi di rilasciare l'attestato che, sette giorni dopo, permetterà alla donna di abortire, anche se sono convinti che le cause che la stessa "accusa" sono inesistenti. Inoltre, come scritto esplicitamente dall'art. 9, comma 4, della legge 194, gli ospedali "sono tenuti in ogni caso ad assicurare l'espletamento delle procedure e l'effettuazione degli interventi di interruzione della gravidanza"; quindi un obbligo della struttura, che non può rifiutarsi; e, corrispondentemente anche un obbligo dei sanitari che non hanno prestato obiezione di coscienza. In effetti, se un medico non obiettore si rifiuta di eseguire un aborto, riceve delle sanzioni (disciplinari e/o penali).
Il terzo dato è che il diritto di aborto è stato esplicitamente riconosciuto dai Giudici civili. Come è noto, sono essi quelli che riconoscono i diritti e condannano chi li ha lesi a risarcire il danno a favore del titolare. Questo avviene ripetutamente in Italia, da molti anni, e da parte della Cassazione, nel caso di donne che non hanno potuto esercitare il loro diritto ad abortire per non essere state avvisate dai sanitari delle possibili malformazioni del nascituro. In queste sentenze si parla esplicitamente di "diritto di aborto", anche con riferimento a quello compiuto nel secondo trimestre di gravidanza.

Un'ultima considerazione: una cosa è dire come la legge dovrebbe essere; un'altra è riconoscere come una determinata legge è effettivamente. L'ottica dei post - forse non del tutto compresa dalla prof.ssa Morresi - è questa: come è fatta la legge sull'aborto davvero? Contrapporre la legge 194 (una legge nazionale) ad una risoluzione del Consiglio d'Europa confonde le idee: tutti abbiamo esultato per quella risoluzione perché è una fiammella di speranza di cambiamento della legge 194.

Per ora, la legge è quella: è la stessa legge ingiusta così definita nel 1981 da Assuntina Morresi (e da me); non è cambiata. Il fatto che quel referendum sia stato perso non ha cambiato l'ingiustizia di quella legge. Molti di quei milioni di bambini uccisi per l'aborto sono stati uccisi perché abbiamo perso quel referendum.

Giacomo Rocchi

mercoledì 11 luglio 2012

Davvero l'aborto non è un diritto in Italia? Risposta ad Assuntina Morresi \2

Ripartiamo, allora, dalla risposta che Assuntina Morresi ha dato nell'intervista al sito UCCR sull'obiezione di coscienza:
«L’attacco all’obiezione di coscienza serve per far passare l’idea che abortire è un diritto. Nella legge 194, invece, l’aborto non è considerato un diritto, ma l’ultima opzione possibile nel caso di una maternità rifiutata. Stiamo parlando del testo di legge, e non della percezione che invece si ha, dell’aborto. Attaccare l’obiezione di coscienza nei termini in cui si sta facendo in questi ultimi mesi significa affermare che chi obietta lede un diritto, quello di abortire.»
Da questa frase abbiamo ritenuto che emergesse con chiarezza la posizione della Morresi sulla bontà della legge 194 e sulla inopportunità di abolirla. Nella risposta precedente l'intervistata aveva affermato anche che "Non si può essere costretti a uccidere esseri umani per legge, anche se si tratta di una legge decisa in istituzioni democratiche. La tutela dell’obiezione di coscienza è indice del rispetto della coscienza dei cittadini, indice di civiltà di un popolo e di chi lo governa": quindi la situazione attuale, in cui l'obiezione di coscienza è (ancora) tutelata dimostra che siamo un "popolo civile con governanti civili" (anche se, appunto, le istituzioni democratiche e il popolo nel referendum ha permesso l'uccisione di milioni di bambini innocenti ...).

Morresi contrappone testo di legge a percezione che si ha dell'aborto: la "gente", cioè, avrebbe una "percezione sbagliata"; crede erroneamente che ogni donna nei primi mesi di gravidanza può abortire a semplice richiesta; invece no, la legge (anzi: il "testo della legge") è tutto diverso; le donne che chiedono di abortire sono autorizzate a farlo solo in pochissimi casi, solo quando tutte le "opzioni" sono state prese in considerazione (soldi, alloggio, adozione, cure ecc.) ... non è un diritto!
Le risposte sono di due tipi (oltre ad un terzo: non ci prendete in giro!).
La prima risposta è leggere il "testo di legge" invocato dalla Morresi. La quale, peraltro, deve essersi fermata all'articolo 4, senza andare oltre; così accontentandosi del proclama iniziale secondo cui "Lo Stato ... tutela la vita umana dal suo inizio", alla definizione ipocrita secondo cui "l'interruzione volontaria della gravidanza non è mezzo per il controllo delle nascite", all'articolo "buonista" che presenta i consultori familiari come strutture che assistono la donna in gravidanza, contribuendo a far superare le cause che potrebbero indurla all'aborto, e, infine, appunto, all'articolo 4 che finge - finge! lo vedremo subito dopo - che l'aborto nei primi novanta giorni possa essere eseguito solo quando la "prosecuzione della gravidanza comporterebbe un serio pericolo per il suo stato di salute fisica o psichica, in relazione al suo stato di salute, alle sue condizioni economiche o sociali o familiari o alle circostanze in cui è avvenuto il concepimento o a previsioni di anomalie o malformazioni del concepito".
Vedete, sembra dirci la prof.ssa Morresi? La vita umana è tutelata, la donna incinta la aiutano in ogni modo e l'aborto è permesso solo in casi specifici, mica sempre ... 


Peccato che c'è l'art. 5 ... il quale prevede che la donna che intende abortire si reca ad un consultorio o da un medico di sua scelta, dice che vuole abortire, il medico del consultorio le rilascia un "attestato" (non un certificato!) in cui dà atto che la donna ha chiesto di abortire; dopo sette giorni la donna può recarsi all'ospedale per abortire.
Le cause della richiesta della donna? Irrilevanti: qualunque sia il motivo addotto, il medico deve rilasciargli l'attestato e non ha nessuna possibilità di verificarlo.
Il medico può rifiutarsi di rilasciare l'attestato? No.
L'ospedale può rifiutarsi di eseguire l'aborto? No.
Se la donna è al quinto aborto (e, quindi, usa chiaramente l'aborto come mezzo di controllo delle nascite), i medici si possono rifiutare? No.
Se, durante il colloquio, la donna si rifiuta di ascoltare quanto il medico le dice, il medico può rifiutarsi di rilasciare l'attestato? No.
Il medico è obbligato a indirizzare la donna ad un centro di aiuto alla vita? No.
Se il medico indica alla donna un Centro di aiuto alla vita, la donna è obbligata a rivolgersi ad esso? No. Se il medico dell'ospedale sa che non esiste il motivo che la donna ha addotto, può rifiutarsi di eseguire l'aborto? No.
Il padre del bambino può impedire alla donna di abortire? No.
Il padre del bambino può interloquire sulla scelta di abortire? No.
La donna che ha abortito dopo il rilascio dell'attestato rischia qualche sanzione se ha accusato motivi inesistenti? No.

E allora: l'aborto è un diritto?
La seconda risposta è di tipo giuridico. La prof.ssa Morresi parla del testo della legge e, quindi, intende riferirsi al concetto di "diritto" in senso tecnico.
Daremo questa risposta nel prossimo post.

Giacomo Rocchi

lunedì 9 luglio 2012

Davvero l'aborto non è un diritto in Italia? Risposta ad Assuntina Morresi \1

Il meritorio sito web dell'UCCR (Unione Cristiani Cattolici Razionali) http://www.uccronline.it/ ha avviato una campagna a difesa dell'obiezione di coscienza dei medici per contrapporsi all'attacco sempre più violento orchestrato dalla famigerata Consulta di Bioetica. La campagna si intitola: "L'obiettore è un buon medico" (mi permetterei di aggiungere: l'obiettore è un buon infermiere, un buon operatore socio-sanitario, un buon farmacista).
Consiglio vivamente di accedere a questo sito, davvero pieno di contenuti e fedele all'impegnativo nome che si è dato.

L'UCCR ha intervistato, tra gli altri, Assuntina Morresi, che non ha mancato di riproporre la sua visione della legge 194. Riportiamo il passo (l'intervista completa è al seguente link: http://www.uccronline.it/2012/06/28/lobiettore-e-un-buon-medico-parla-assuntina-morresi/):

“Cosa ne pensa di questi tentativi di limitare la libertà del medico?” «L’attacco all’obiezione di coscienza serve per far passare l’idea che abortire è un diritto. Nella legge 194, invece, l’aborto non è considerato un diritto, ma l’ultima opzione possibile nel caso di una maternità rifiutata. Stiamo parlando del testo di legge, e non della percezione che invece si ha, dell’aborto. Attaccare l’obiezione di coscienza nei termini in cui si sta facendo in questi ultimi mesi significa affermare che chi obietta lede un diritto, quello di abortire.»

Il giudizio di Assuntina Morresi sulla legge 194 di legalizzazione dell'aborto è noto: "Una buona legge, una delle migliori leggi sull'aborto nel mondo" (Tempi, 29/11/2007).

Scopriamo, allora, che la giusta battaglia per la difesa di questo diritto fondamentale degli operatori sanitari, una battaglia da cui non ci si può astenere, rischia di nascondere i dissensi che all'interno del mondo cattolico italiano, e anche del mondo prolife, esistono. Farli venire alla luce in maniera razionale non dovrebbe certo  intimorire un sito che - giustamente - si richiama alla razionalità del cristianesimo.

Inizio da una domanda provocatoria: la battaglia per la difesa dell'obiezione di coscienza è un'azione a difesa della legge 194? A leggere Assuntina Morresi sembra proprio di si: questa legge, oltre ad essere "una delle migliori del mondo" e a permettere l'uccisione del bambino solo come "ultima opzione possibile", ha anche previsto il diritto all'obiezione di coscienza dei sanitari, mostrandosi, così illuminata, democratica, rispettosa delle opinioni di tutti e della libertà religiosa e di coscienza.
Quindi: Viva la 194?

Non è che la Morresi vede questa azione come una delle battaglie di retroguardia che hanno caratterizzato la parte prevalente della politica cattolica nell'ultimo decennio? Consentiamo la produzione in vitro dell'uomo pur di evitare il "far west della provetta" e la fecondazione eterologa; sosteniamo l'astensione al referendum sulla legge 40 per sommare ai nostri pochi voti la massa degli astensionisti; lottiamo contro l'aborto chimico (RU486) perché l'aborto chirurgico (cioè la macellazione del bambino, invece del suo avvelenamento) è più sicuro per la salute della donna; facciamo la legge sul testamento biologico che permetterà (anche se non si può dire) l'eutanasia, perché altrimenti la decidono i Giudici; e ora: fate pure gli aborti, ma lasciateci la libertà di non farli?

Oppure l'obiezione di coscienza deve essere vista come una previsione doverosa da parte di uno Stato che, nel 1978, aveva compiuto la scelta più abietta: permettere l'uccisione dei bambini innocenti?
Si può combattere per l'obiezione di coscienza dei sanitari senza ribadire che la legge che ha consentito di sterminare cinque milioni e mezzo di bambini è integralmente iniqua, è una "non legge" dal punto di vista del diritto naturale?

Ecco che quella frase lasciata cadere dalla Morresi nell'intervista all'UCCR non è per niente casuale. La frase è una presa di posizione implicita, ma "pesante": la legge 194 non si tocca, non si deve modificare: e ciò viene affermato chiaramente contro chi, nel mondo cattolico e prolife, non si stanca di ribadire la iniquità di questa legge, tanto da immaginare un'iniziativa referendaria.
Come è noto, questo è la posizione pregiudiziale per essere ammessi al tavolo del potere in Italia. Se parli di abolire la 194, sei fuori; se premetti che non intendi modificarla ... vieni, possiamo parlare e vedere cosa fare insieme.

Ecco perché, nel prossimo post, vedremo come, al contrario, sì: la legge 194 considera l'aborto volontario - cioè la volontaria soppressione di un essere umano - un diritto; anzi, un diritto pieno e potestativo, il cui esercizio è rimesso alla semplice volontà della donna.

Giacomo Rocchi