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sabato 3 settembre 2011

Testamento biologico: il progetto approvato alla Camera/6




Così come per i tutori e gli amministratori di sostegno, anche per i genitori dei minori il progetto prevede un potere di decisione sulle terapie necessarie ai figli davvero enorme.
Vediamo anche questo aspetto e tiriamo le fila di questa regolamentazione sul "consenso informato", da alcuni salutata come un grande passo in avanti ma che, in realtà, fa intravedere ombre davvero scure.

Anche la disciplina sul consenso informato al trattamento sanitario dei minori è stata modificata alla Camera dei Deputati. L’articolo 2 comma 7 ora recita: “Il consenso informato al trattamento sanitario del minore è espresso o rifiutato dagli esercenti la potestà parentale o la tutela dopo avere attentamente ascoltato i desideri e le richieste del minore. La decisione di tali soggetti è adottata avendo come scopo esclusivo la salvaguardia della vita e della salute psicofisica del minore”. Anche per i minori è stato cancellata la previsione della necessità di ricorrere al giudice tutelare in caso di mancato consenso. Inoltre – a differenza degli interdetti – non viene richiamata la disciplina delle dichiarazioni anticipate di trattamento.
Il quadro che ne esce – a prescindere dalle intenzioni dei parlamentari che hanno proposto le modifiche – è preoccupante. La norma, in sostanza, dice: decidono i genitori (tranne i casi di urgenza, che valgono anche per i minori); non pone limiti alle decisioni che essi possono prendere; non prevede in alcun modo che i medici possano disapplicare le decisioni dei genitori.
L’unico vincolo a queste decisioni è l’obbligo per i genitori di adottarle avendo come scopo esclusivo la salvaguardia della vita e della salute psicofisica del minore: ma, non essendo stabilita l’inefficacia del loro rifiuto di terapie salvavita, non sorge nemmeno il conseguente obbligo per i medici di eseguirle ugualmente.
Se la norma non stabilisce un sistema di controllo efficace sulle decisioni, è inutile (e ingannevole) stabilire limiti o criteri per chi le deve adottare; pensiamo al regime dell’aborto volontario nei primi 90 giorni stabilito dalla legge 194: in teoria la legge permette l’aborto solo in certi casi, ma, in realtà, l’aborto è permesso sempre, perché la legge non permette alcun controllo sulla decisione della donna.
Non sorprenda questa insistenza sull’eutanasia dei minorenni: l’uccisione dei neonati prematuri a rischio di disabilità è teorizzata ed attuata in molti Paesi (si ricordi il tristemente famoso “Protocollo di Groningen”); la strada più semplice per introdurla nel nostro Paese è quella di attribuire ai genitori (adeguatamente consigliati da certi medici: “potrebbe sopravvivere, ma forse resterebbe handicappato …”) la decisione finale sulla prosecuzione delle terapie intensive neonatali.

Ecco, in definitiva, che quel principio del consenso informato, apparentemente principio di buon senso, declinato in concreto, non apre spiragli, ma piuttosto rischia di spalancare porte a decisioni eutanasiche prese da legali rappresentanti di incapaci (spesso su suggerimento di certi medici).




Giacomo Rocchi

venerdì 5 novembre 2010

Vittoria per la scienza e la vita ... e qualche riflessione


La notizia del ritorno a casa di Angelica, una bambina nata a 22 settimane di gravidanza, del peso alla nascita di 550 grammi (ora pesa tre chili e mezzo), dopo quasi sei mesi di terapia intensiva all'Umberto I di Roma riempie di gioia.

La scienza e la medicina hanno unito i loro sforzi, insieme all'amore per quella bambina, e la battaglia - a quanto dicono i medici - è stata vinta!

Quando si tratta di salvare una vita - anche la più piccola e debole - non si possono lesinare sforzi, capacità, denaro.

Si può essere polemici anche in questa occasione?
Si deve.

Qualche anno fa una commissione ministeriale nominata dall'allora Ministro della Salute on. Livia Turco e presieduta dalla sen. Maura Cossutta proponeva - nero su bianco - che "tra 22+0 e 22+6 settimane al neonato devono essere offerte solo le cure compassionevoli, salvo in quei casi, del tutto eccezionali, che mostrassero capacità vitali": non valeva la pena di rianimare ...

Ma anche le dichiarazioni del neonatologo Mario De Curtis, della Pediatria dell'Umberto I, effettuate quasi come una excusatio non petita, lasciano qualche ombra:
"All'Umberto I l'assistenza ai grandi prematuri viene avviata e mantenuta
valutando le loro condizioni cliniche ed evitando ogni accanimento terapeutico:
Angelica non presentava alterazioni neurologiche tali da far prevedere una
possibile disabilità
"
(la dichiarazione virgolettata su Repubblica Roma).

Quale è il criterio seguito per decidere se iniziare e proseguire la rianimazione dei bambini prematuri?
Si rianimano tutti i bambini che hanno una possibilità concreta di sopravvivenza oppure quelli che, oltre a poter sopravvivere, non rischiano di essere disabili?

I bambini prematuri che possono sopravvivere per merito della terapia intensiva ma per i quali si può prevedere una possibile disabilità non vengono rianimati?

Giacomo Rocchi




sabato 14 agosto 2010

Sulla pelle dei neonati


Ricordate il pediatra che, nel marzo 1998, scandalizzò tutti sostenendo, in un convegno all'Ospedale dei bambini Meyer di Firenze, che "i neonati non sono persone"? Il dr. Gianfranco Vazzoler sostenne che "I feti, i neonati, gli infanti, i ritardati mentali gravi e coloro che sono in uno stato vegetativo permanente, costituiscono esempi di non persone umane. Tali entità fanno parte della specie umana, ma non sono persone", giungendo ovviamente alla conclusione che "Alcuni neonati sono neurologicamente e fisicamente così compromessi da essere impossibilitati irreversibilmente ad acquisire il loro potenziale di conquista dei diritti. Non potranno mai diventare persone e quindi il loro migliore interesse non sta nel perseguire la vita".


La questione dei neonati prematuri - per i quali la rianimazione spesso ha successo, anche se essi rischiano di riportare disabilità anche gravi - ha trovato una soluzione decisa in Olanda: lì (ovviamente dopo aver riempito una serie di documenti con firme, timbri ecc.) si fanno morire.


Ma anche in Italia la spinta verso la loro uccisione è forte. Nel 2007 un gruppo di lavoro ministeriale istituito dall'allora Ministra Livia Turco propose di distinguere i neonati in base alla settimana di gestazione: 22 settimane: nessun tentativo; 23 settimane: la decisione di proseguire nelle cure deve essere "condivisa" dai genitori (che, cioè devono essere d'accordo) e "non può prescindere dalla valutazione dei dati di mortalità e disabilità riportati in letteratura riferiti alla propria area": in altre parole, se le previsioni di handicap sono forti, si può decidere di non rianimare.


Il Consiglio Superiore di Sanità aveva bocciato questa linea: No ad una rigida divisione per settimane di gestazione e, soprattutto, "In caso di conflitto tra le richieste dei genitori e la scienza e coscienza dell’ostetrico neonatologo, la ricerca di una soluzione condivisa andrà perseguita nel confronto esplicito ed onesto delle ragioni esibite dalle parti, tenendo in fondamentale considerazione, la tutela della vita e della salute del feto e del neonato": quindi un neonato deve essere curato e fatto vivere anche se i genitori non sono d'accordo e anche se si prevedono delle disabilità.

Un medico deve salvare la vita al paziente, non può "pesare" la qualità della sua vita futura prima di decidere se curarlo!


Ebbene: il progetto di legge sulle Dichiarazioni Anticipate di trattamento (il cd. progetto Calabrò) prevede che, senza il consenso dei genitori, i medici non possano erogare terapie ai minori. Anche in caso di pericolo di vita per il neonato, i genitori potranno rifiutare il consenso. Il neonatologo non potrà salvare la vita del neonato e lo dovrà lasciare morire.


Qualche domanda si pone:

- il dr. Vazzoler aveva forse ragione?

- è giusto far morire i neonati prevedendo che, nel loro futuro, avranno un qualche handicap?

- è giusto far decidere i genitori sulla vita e la morte dei loro bambini?

- come mai una norma del genere è inserita in un progetto di legge sulle dichiarazioni anticipate di trattamento?

- come mai le forze che sostengono quel disegno di legge non parlano di questo (e di altri) argomenti?


Giacomo Rocchi

domenica 20 settembre 2009

Curare i bambini? Un problema morale/ 3




Come valutare l'episodio inglese riportato nel post precedente? Un neonato nato prematuramente è stato lasciato morire dal personale sanitario perché era nato alla 21a settimana + 5 giorni di gravidanza: solo se i bambini nascono dopo 22 settimane di gravidanza, infatti, le linee guida in uso permettono di sottoporli a terapia intensiva e, quindi di tentare di salvarne la vita.

Partiamo da un'osservazione che potrebbe apparire secondaria: quella dell'incertezza in ordine alla data di inizio della gravidanza; tutti sanno che questa data non può essere stabilita in maniera assolutamente esatta ... si poteva forse escludere che, in quel caso, la gravidanza fosse iniziata due giorni prima rispetto alla data individuata dai medici, e, quindi, avesse raggiunto le 22 settimane?

Accostiamo a questa prima osservazione un'altra: le differenze nello sviluppo tra i vari bambini, sia prima che dopo la nascita. Si tratta anche questo di un dato di comune esperienza: così come, dopo la nascita, non tutti i bambini di sei mesi hanno la stessa corporatura, si comportano nello stesso modo ecc., così anche prima della nascita lo sviluppo degli organi (ad esempio: dell'apparato polmonare) non è un dato matematico; se è vero che i problemi di sviluppo polmonare sono comuni ai bambini nati prematuramente, ma non si può affermare - nessuno lo afferma - che, prima di una certa data, sicuramente lo sviluppo non permette la sopravvivenza, mentre dopo tale data, sicuramente la terapia intensiva avrà effetto.

Due osservazioni di buon senso per esclamare, rispetto al caso inglese: dovevate provare ad assistere e curare quel bambino! Magari, dopo i primi tentativi, sarebbe risultato chiaro che essi erano inutili, ma prima si doveva provare!

Bellieni - il noto neonatologo di Siena - osserva che, se negli anni passati l'atteggiamento dei medici nei confronti dei neonati prematuri fosse stato questo, l'enorme progresso nei risultati non ci sarebbe mai stato: ancora morirebbero bambini nati alla 30a settimana ...


Ma gli specialisti della rianimazione neonatale avevano una "spinta" in più: il bambino era lì, già nato, e andava salvato! Era un uomo che rischiava di morire e che il medico poteva - doveva! - salvare, senza occuparsi di cosa fosse accaduto prima, delle difficoltà della gravidanza, dei dubbi della madre se abortire o meno, della situazione familiare, delle patologie cui il bambino era affetto ...

Da un medico non ci si aspetta questo?

Non più: in Inghilterra classificano i neonati a seconda della settimana di sviluppo - tu sì ... tu no (non ricorda l' "accoglienza" ad Auschwitz narrata da Levi?) - e stabiliscono che alcuni sono "persone", altri sono "non persone", "feti" che, benché nati, si deve far finta che non lo siano, bisogna ricacciare indietro, nella landa dove tutto è possibile: la gravidanza intesa come luogo dove il bambino può essere ucciso sempre.

Solo in Inghilterra? Un documento approvato nel 2006 a Firenze (del gruppo di lavoro faceva parte la d.ssa Serenella Pignotti, quella che parlerà alla Sapienza dei "dilemmi morali" che sorgono nella rianimazione dei neonati prematuri), proponeva di distinguere i neonati per età gestazionale e, per i bambini nati alla 22a settimana (quelli che, in Svezia, sopravvivono nel 10% dei casi se sottoposti a terapia intensiva) dava questa indicazione: "Al neonato devono essere offerte le cure confortevoli, salvo in quei casi del tutto eccezionali che mostrassero capacità vitali significative".

Lasciamoli morire ...

Giacomo Rocchi

martedì 15 settembre 2009

Curare i bambini? Un problema morale/ 2




Due notizie di attualità possono aiutare ad affrontare con maggiore consapevolezza il tema della rianimazione e la cura dei neonati prematuri.

Sul numero di Giugno della rivista scientifica "The journal of the Anerican Medical Association" è apparso uno studio statistico avente ad oggetto la sopravvivenza in Svezia dei neonati prematuri negli anni 2004 - 2007: il dato complessivo, per i neonati venuti alla luce vivi dalla 22a alla 26a settimana di gestazione, il 91% dei quali era stato sottoposto ad attività di rianimazione intensiva, indica che il 70% di essi era vivo ad un anno di età; tra i bambini nati vivi alla 22a settimana di gestazione, il 10% - quindi uno su dieci - era ancora vivo; tra quelli nati alla 26a settimana di gestazione l'85% dei bambini (quindi quasi nove bambini su dieci) era ancora vivo.

Si tratta di risultati straordinari, impensabili fino a pochi anni orsono, frutto di uno sforzo scientifico e tecnologico immenso: fino a pochi decenni fa tutti i bambini oggetto dello studio sarebbero morti.

Il dato del 10% di bambini nati alla 22a settimana di gravidanza e vivi ad un anno di età è, poi, davvero eclatante: si pensi che in un libro recentissimo ("La Morte dell'eutanasia", a cura di C.V. Bellieni e M. Maltoni, S.E.F., Firenze, 2006) la sopravvivenza a questo stadio era considerata assolutamente eccezionale (G.B. Cavazzuti affermava che i neonati, se nati prima della 23a settimana, non posono sopravvivere a causa dell'immaturità polmonare).

Accostiamo questi dati scientifici ad una notizia apparsa pochi giorni fa su "Il Sussidiario" (l'articolo è stato pubblicato integralmente sul sito del Comitato Verità e Vita):

"in Gran Bretagna una giovane donna, Sarah Capewell, ha dato alla luce un bimbo, Jayden, dopo 21 settimane e cinque giorni di gravidanza. Il personale sanitario si è rifiutato di sottoporre il bimbo prematuro alle cure intensive che forse gli avrebbero consentito di sopravvivere. La sua colpa era quella di essere nato due giorni prima delle canoniche 22 settimane. Di fronte al disperato appello di salvare il proprio figlio, quella giovane madre si è sentita rispondere dai medici del James Paget Hospital di Gorleston, Norfolk, che lei non aveva partorito un neonato ma, a termini di legge, aveva abortito un feto vivente (...) .

Le linee guida stabilite dalla British Association of Perinatal Medicine, rigidamente seguite negli ospedali pubblici britannici, stabiliscono, infatti, che deve considerarsi best interest dei bambini non nascere prima delle 22 settimane, e altrettanto best interest far morire i piccoli che abbiano avuto la disavventura di venire al mondo qualche giorno prima della fatidica scadenza. Così, l’agonia del piccolo Jayden è durata due ore, sotto gli sguardi gelidi e indifferenti del personale sanitario"

Sempre di medici si tratta ... e sempre di bambini prematuri: perché, allora, alcuni sono stati salvati con grande impegno e amore e un altro è stato lasciato morire?

Giacomo Rocchi

domenica 13 settembre 2009

Curare i bambini? Un problema morale/ 1



Nel precedente post abbiamo ironizzato sulla ricerca di "valutazioni etiche razionali" che il Master di Bioetica dell'Università di Pisa effettua sul tema del rapporto tra uomo e animali (meglio: tra uomo e animali "non umani" ...).

Ma, si sa, i Master di Bioetica sono tanti: e così quello promosso dall'Università La Sapienza di Roma (sì, l'ateneo che non ha fatto parlare Benedetto XVI e ha accolto nell'Aula Magna il colonnello Gheddafi ...) insiste sul tema dell'etica e propone un incontro il 24 settembre.

La relazione della prima sessione? Serenella Pignotti (Terapia Intensiva Neonatale, Ospedale Meyer Firenze), «Rianimazione dei grandi prematuri e dilemmi morali».
Ecco: curare i bambini fa sorgere problemi morali ...

La questione della rianimazione dei neonati prematuri, benché riguardi complessivamente un numero di bambini assai limitato, è in realtà un tema assai importante che vale la pena di riassumere.
I neonati prematuri hanno - in questa società - il triste privilegio di richiamare su di sé sia i ragionamenti sull'aborto, sia quelli sull'eutanasia: sì, perché - bisogna chiarirlo fin da subito - sono in molti a volerli morti nel maggior numero possibile.

Come sappiamo la mentalità abortista fa leva sul bambino nascosto: del bambino non si deve parlare alla donna che è in difficoltà per la gravidanza (o semplicemente non vuole proseguire la stessa), non si deve farle vedere le ecografie (abbiamo visto la decisione del Giudice americano) per il rispetto della sua privacy; ma di bambino non si deve parlare nemmeno nelle leggi che ne permettono la soppressione (di qui l'acronimo IVG: è un po' diverso dire che, in un anno, sono stati uccisi 150.000 bambini oppure che sono state eseguite 150.000 IVG ...).

L'aborto diventa un fatto evanescente: non c'è più sangue, non c'è più la vittima, la donna talvolta non pernotta nemmeno una notte in ospedale.

Questo permette alla società di disinteressarsi di quanto accade; ma facilita enormemente la diffusione di una mentalità di rifiuto del bambino malato, con handicap, con sindrome di Down ecc.: è diventato un ragionamento comune - lo dicono le statistiche ministeriali - quello secondo cui, se le diagnosi prenatali hanno un esito sfavorevole (magari danno soltanto una probabilità di patologia), l'aborto è una soluzione inevitabile, anzi è un rimedio socialmente obbligatorio.

Chi è il neonato prematuro?
E' un bambino la cui nascita, per cause naturali, è anticipata rispetto al termine consueto; è un bambino che, se non ci fosse stato il parto anticipato, sarebbe stato soggetto alla legge sull'aborto.
Il neonato prematuro è uno scandalo: è lo stesso bambino che sta nascosto nel ventre materno - la nascita non ne muta affatto la natura! - ma è davanti ai nostri occhi.
Quali problemi morali possono nascere da questa situazione?
Per qualcuno il problema "morale" (sic!) sembra essere uno solo: se lo potevamo uccidere prima che nascesse, come facciamo ad ucciderlo anche dopo che è nato?

Giacomo Rocchi


mercoledì 19 novembre 2008

Autodeterminazione?



Il precedente post si concludeva con una domanda: "Siamo proprio sicuri che chi propone il testamento biologico ha davvero l'autodeterminazione come unico punto di riferimento?".


Torniamo agli esempi fatti: Eluana Englaro (quindi persone in condizione di stato vegetativo persistente), aborto procurato ed eutanasia di neonati prematuri; per tutti vengono addotte motivazioni che apparentemente non intaccano il principio del rispetto della dignità del soggetto ucciso e non negano - in linea di principio - il suo diritto alla vita: nel caso Englaro si richiama la volontà del soggetto di cui il tutore si sarebbe fatto voce; nell'aborto volontario ci si appella alla prevalenza del diritto alla salute della madre sul diritto alla vita del figlio (sentenza n. 27/75 della Corte Costituzionale); nel caso dei neonati prematuri si fa riferimento ad una presunta inutilità degli sforzi di rianimazione nel caso di nascita ampiamente pretermine, sforzi che, quindi, rischierebbero di trasformarsi in una pratica crudele sugli stessi bambini.



In realtà, accanto a queste motivazioni "ufficiali" esistono correnti di pensiero - che si fanno sentire sempre più forte - che giustificano gli stessi atti uccisivi negando radicalmente ogni diritto e ogni dignità alle vittime: per tutte - bambini prima della nascita, neonati prematuri, pazienti in SVP - si contesta l'essere gli stessi "persone", introducendo una categoria - quella degli esseri umani viventi non ancora o non più persone - per la quale non sarebbero applicabili le dichiarazioni universali dei diritti dell'uomo, la Costituzione italiana, le norme del codice penale e così via.


Ecco che l'aborto non può che essere consentito, in questa ottica, in qualunque fase della gravidanza e per mera volontà - che non richiede motivazioni - della madre; ecco che, nel caso di neonati prematuri a rischio di disabilità (ma, per qualcuno, coerente fino in fondo: per tutti i neonati fino al trentesimo giorno di vita ...) la decisione di uccidere (mediante omessa rianimazione) può dipendere da una decisione dei genitori (che quindi possono valutare se se la sentono di accudire un figlio disabile per molti anni); ecco che uguale diritto di decidere viene riconosciuta ai parenti nel caso di pazienti in SVP.
Non perderemo certo tempo a confutare queste tesi, di solito basate sul principio di autocoscienza: chi non ce l'ha, non è persona ... sono un semplice paravento per nascondere la legge del più forte, che deve poter decidere sulla sorte del più debole senza essere in alcun modo limitato nei propri desideri e istinti; interessa di più notare che, in realtà, queste tesi "estreme" portano, in sostanza, agli stessi risultati delle motivazioni "ufficiali", nobili.

Grande scandalo ha destato l'intervento a Firenze qualche giorno fa di un "neonatologo" (sic!) che ha detto a chiare lettere che, secondo lui, i neonati non sono persone: ma gli stessi benpensanti da tempo sostengono la necessità di far morire i neonati troppo prematuri nel caso il rischio di disabilità sia troppo alto o le probabilità di successo delle pratiche di rianimazione troppo basse; il tutto semplicemente sulla base della settimana di gestazione in cui è avvenuto il parto e non curando ciascun bambino per come è.
Quanto all'aborto: il richiamo della Corte Costituzionale al bilanciamento degli interessi tra madre e figlio non ha impedito l'approvazione di una legge che rende assolutamente libero l'aborto procurato, disinteressandosi delle motivazioni addotte dalla donna e, anzi, valorizzando quelle eugenetiche: ma il primo passo non l'aveva forse fatto la stessa Corte Costituzionale quando (ingenuamente?) aveva definito l'embrione come colui "che persona deve ancora diventare"?

E quanto ai pazienti in stato vegetativo persistente? Che pensare quando - en passant - il "grande scienziato" Veronesi definisce il loro stato "uno stato intermedio tra la vita e la morte", "una condizione di vita artificiale" o "il limbo della vita artificiale"? Quando cioè - implicitamente - non considera questi pazienti vivi, ma vivi artificialmente, quasi morti? Del resto il senatore Marino, autore della principale proposta di legge in discussione, accenna positivamente al fatto che in altri paesi è "prassi comune nelle strutture sanitarie ... interrompere le terapie quando non esiste una ragionevole speranza di riportare il paziente ad una condizione di vita accettabile": esistono quindi una vita accettabile e una vita non accettabile...

Il sospetto che - in fondo - ai fautori del testamento biologico il rispetto dell'autodeterminazione del paziente non interessi, poi, granché, si rafforza: perché dovrebbe davvero contare la volontà di chi, al momento di decidere sulla sua soppressione, non è in una condizione di pieno possesso dei suoi diritti?

Giacomo Rocchi



mercoledì 15 ottobre 2008

All'inizio era il pre-embrione

1978: nasceva la prima bambina concepita in vitro.
1984: il Comitato Warnock, presieduto dalla baronessa Warnock che abbiamo già conosciuto, si pronunciò in ordine alla possibilità di ricerca sugli embrioni umani.

La risposta giunse dopo due passaggi: nel primo il Comitato negava la possibilità di distinguere gli embrioni in base al loro sviluppo:
"... una volta che il processo dello sviluppo è iniziato, non c'è stadio particolare dello stesso che sia più importante di un altro; tutti sono parte di un processo continuo, e se ciascuno non si realizza normalmente nel tempo giusto e nella sequenza esatta lo sviluppo ulteriore cessa. Perciò da un punto di vista biologico non si può identificare un singolo stadio nello sviluppo dell'embrione, prima del quale l'embrione in vitro non sia da mantenere in vita".

La risposta - che pareva ovvia - era quindi che non si potesse effettuare ricerche sugli embrioni.
Ma il Comitato si pronunciò nel senso opposto:
"Tuttavia si è convenuto che questa era un'area nella quale si doveva prendere una precisa decisione al fine di tranquillizzare la pubblica ansietà. Nonostante la nostra divisione su questo punto, la maggioranza (16 su 23) di noi raccomanda che la legislazione dovrebbe disporre che la ricerca possa essere condotta su ogni embrione risultante dalla fertilizzazione in vitro, qualunque ne sia la provenienza, fino al termine del quattordicesimo giorno dalla fecondazione, ma soggetta a tutte le altre restrizioni imposte dal Comitato di autorizzazione".

Si abbandonava, quindi, la certezza scientifica e per motivi utilitaristici si discriminavano gli embrioni sulla base di un criterio arbitrario: si affermava che gli embrioni erano esseri umani che meritavano ogni rispetto, ma si fingeva che non lo fossero.

A distanza di trent'anni la Baronessa Warnock non ha smesso di discriminare gli uomini nella stessa maniera. Nell'affrontare il tema dell'aborto tardivo - anche in Gran Bretagna si discute se fissare alla 22a settimana di gravidanza - anziché alla 24a settimana - il termine ultimo per cui l'aborto è permesso, in ragione della aumentate possibilità di sopravvivenza, ella argomenta:
"ciò che ora è un aborto legale verrebbe considerato un parto indotto seguito dall’infanticidio.
In prima battuta, sembra un cambiamento benigno e diretto a salvare vite. I bambini nati così prematuramente devono essere sottoposti a cure intensive e, se sopravviveranno, molto probabilmente in larga misura avranno danni cerebrali. I genitori e gli specialisti, nella maggior parte dei casi, dedicano loro stessi a mantenerli in vita, se è possibile. Medici e infermieri hanno sempre odiato eseguire aborti tardivi e il pensiero che il feto abortito possa sopravvivere deve rendere l’aborto ancora più odioso".

Scatta, però, una domanda terribile: "Ma la scelta politica di salvare queste vite risponde all’interesse pubblico? Si tratta di una questione cui i legislatori devono porsi".
La difesa della vita di un uomo non è più considerata - di per sé - rispondente all'interesse pubblico, ma è subordinata ad un altro interesse, che viene considerato superiore.

Vista questa impostazione, già si intuisce che si tratta di una domanda retorica, che introduce ad una risposta negativa: non è nell'interesse pubblico salvare la vita a bambini prematuri a rischio di sopravvivenza e che potranno avere danni cerebrali.


Ma la Warnock, per giungere a questo risultato, passa ancora attraverso una finzione normativa, analoga a quella adottata per gli embrioni:
"Se siamo d’accordo a ritenere che l’aborto dopo le 22 settimane debba essere considerato un infanticidio, la risposta sarà “si”. E’ nel pubblico interesse prevenire l’uccisione dei bambini. Una società che la permettesse sarebbe semplicemente inumana e incivile, non una società in cui vorremmo vivere. Dopo tutto, spesso ci siamo detti che la civilizzazione di una società deve essere giudicata da quanto essa si prende cura dei suoi membri più vulnerabili e pochi potrebbero essere più vulnerabili dei neonati prematuri.
Ma, naturalmente, se la legge viene cambiata, essi non saranno bambini prematuri"

Basta un numero cambiato nella legge (da 24 a 22 settimane) ed ecco: la soluzione è trovata!

Giacomo Rocchi