Ecco, allora, che la posizione dell’on. Buttiglione, benché “condita” da riferimenti a Dio e alla Chiesa, non si differenza affatto dalla più spinta posizione libertaria.
E così, sul Corriere della Sera del 19 luglio, Eugenia Roccella può dire a Buttiglione: “benvenuto tra le femministe”.
E così, sul Corriere della Sera del 19 luglio, Eugenia Roccella può dire a Buttiglione: “benvenuto tra le femministe”.
Ecco alcuni passi della lettera: “do il benvenuto tra le femministe a Rocco Buttiglione. Scorrendo la sua intervista sul «Corriere», ho letto finalmente sull’aborto parole che avrei potuto firmare, parole che ammettono l' errore di un tempo (e già questo è difficile da parte di un politico) e prendono finalmente atto di una realtà incontrovertibile, che però gli uomini, cattolici e non, hanno difficoltà a capire. La realtà è questa: che ognuno di noi è «nato di donna», ha vissuto dentro un altro corpo, smentendo alla radice la nozione di individuo così cara alla cultura occidentale”.
Le parole sull’aborto che Eugenia Roccella firmava sono ben note: “Non più una cosa da consumare in silenzio, l’aborto, peccato voluto da chi lo condanna, reato. In massa, in 2.700 abbiamo rotto il silenzio delle vicende personali, abbiamo dichiarato di avere abortito o aiutato ad abortire … È un vecchio discorso che non ci stancheremo di ripetere, perché a difendere il diritto all’aborto dobbiamo essere proprio noi femministe, noi donne, che l’aborto in sé per sé siamo le ultime a volerlo; ma è un primo passo verso la libera disponibilità e l’autogestione del nostro corpo, senza la quale non c’è libertà né felicità possibile … Mammana è la donna che usa il suo sapere antico, tramandando, purtroppo inagibile perché privo di garanzie di sicurezza, in “aiuto” alle donne; è l’unica ad avere assicurato in questi secoli la libertà, rischiosa quanto si vuole, ma libertà, di abortire … La nostra proposta è di cominciare a creare gruppi di auto-assistenza nei quartieri, riuscendo a mobilitare e a coinvolgere le donne, facendole partecipare direttamente. Non si tratta di “convincere” le donne della necessità di liberalizzare l’aborto, non si tratta di fare propaganda: le donne, se è vera come è vera almeno la cifra più riduttiva di quelle che conosciamo sul numero degli aborti clandestini ogni anno, cioè un milione e mezzo, sanno benissimo cos’è l’aborto e hanno bisogno solo di strumenti per farsi sentire, di occasioni per partecipare e uscire dal silenzio e dall’isolamento. Lotteremo da posizioni di forza nel momento in cui saremo in grado di girare per le case e per i quartieri con la valigetta con gli attrezzi del Karman, quando faremo le riunioni direttamente nelle case delle donne, creando quel tipo di solidarietà che ogni volta stupisce e che è veramente “tra donne” al di fuori di divisioni generazionali e anche di classe, di ideologia, di mentalità. L’aborto può non essere soltanto un aborto, cioè qualcosa di cui liberarsi in fretta e nel migliore dei modi possibile, ma anche una occasione di presa di coscienza, per mettere in discussione se stesse, il proprio modo di vivere la sessualità, la maternità, i rapporti, il ruolo della famiglia, da parte delle donne soprattutto ma anche degli uomini, mariti-padri-fidanzati che, come diceva una compagna del MLAC “non hanno mai messo molto in discussione della propria vita, e non l’avrebbero forse messo se non ci fosse stato il contatto con il gruppo, l’occasione drammatica dell’aborto”. (Introduzione al libro “Aborto, facciamolo da noi. Una proposta di lotta per l’aborto libero e gratuito in strutture sanitarie pubbliche e un trattamento alternativo per le donne”, a cura di Eugenia Roccella, Napoleone editore, 1975).
Certo: vedendo l’on. Roccella l’errore di un tempo di Buttiglione, ci si poteva aspettare che chi apparteneva alle femministe “che apparivano come scalmanate odiatrici di feti” e sostenevano che “l’aborto esula dal territorio del diritto” (e quindi faceva parte della libera disponibilità e dell’autogestione del corpo delle donne: qui il feto non è odiato, è proprio cancellato) riconoscesse qualche errore anche da parte sua (forse l’ha fatto altrove): in realtà la lettera se la cava con la “radicalizzazione dello scontro” (“come accade sempre quando le lotte politiche arrivano nelle piazze”), cosicché “per anni non c’è stato posto per le sfumature” (a rileggere il brano del 1975, l’espressione sfumature appare, come dire, un po’ sfumata …).
Ma, lasciando da parte la capacità degli uomini politici di pentirsi, l’on. Roccella ha tutti i titoli, come si è visto, per accogliere l’on. Buttiglione tra le femministe e quindi nel valutare la considerazione circa l’affidamento del bambino alla madre da parte di Dio: “Non è un ripensamento, ma la verifica di un’impossibilità: non si può partire dall’opposizione donna contro bambino, se vogliamo tentare di combattere l’aborto, che è la soppressione di una preziosa e unica vita umana”.
Da dove dovremmo partire, allora? Dalla “fine di un pensiero che svalorizza la maternità e il patrimonio della differenza femminile, da parte laica come da parte cattolica. Perché l’antifemminismo laico esiste, eccome: e si nasconde proprio tra chi difende con più ardore l’assoluta uguaglianza, l’appiattimento delle donne sul modello maschile. È l’emancipazione, bellezza: come se le donne non potessero aspirare a nulla di meglio, e di più, che assomigliare agli uomini, disperdendo il patrimonio storico della differenza di genere”.
Avete capito? Nella famiglia tradizionale – marito, moglie, figli – in cui la donna partoriva ed accudiva i figli che Dio aveva mandato in collaborazione con il marito, nella piena fedeltà al disegno divino, vi era “un pensiero che svalorizzava la maternità e il patrimonio della differenza femminile … da parte cattolica”!
Pare alla Roccella che nel nostro paese non ci sia altro da fare, se non partire “dalla libertà di essere madri”.
Le parole sull’aborto che Eugenia Roccella firmava sono ben note: “Non più una cosa da consumare in silenzio, l’aborto, peccato voluto da chi lo condanna, reato. In massa, in 2.700 abbiamo rotto il silenzio delle vicende personali, abbiamo dichiarato di avere abortito o aiutato ad abortire … È un vecchio discorso che non ci stancheremo di ripetere, perché a difendere il diritto all’aborto dobbiamo essere proprio noi femministe, noi donne, che l’aborto in sé per sé siamo le ultime a volerlo; ma è un primo passo verso la libera disponibilità e l’autogestione del nostro corpo, senza la quale non c’è libertà né felicità possibile … Mammana è la donna che usa il suo sapere antico, tramandando, purtroppo inagibile perché privo di garanzie di sicurezza, in “aiuto” alle donne; è l’unica ad avere assicurato in questi secoli la libertà, rischiosa quanto si vuole, ma libertà, di abortire … La nostra proposta è di cominciare a creare gruppi di auto-assistenza nei quartieri, riuscendo a mobilitare e a coinvolgere le donne, facendole partecipare direttamente. Non si tratta di “convincere” le donne della necessità di liberalizzare l’aborto, non si tratta di fare propaganda: le donne, se è vera come è vera almeno la cifra più riduttiva di quelle che conosciamo sul numero degli aborti clandestini ogni anno, cioè un milione e mezzo, sanno benissimo cos’è l’aborto e hanno bisogno solo di strumenti per farsi sentire, di occasioni per partecipare e uscire dal silenzio e dall’isolamento. Lotteremo da posizioni di forza nel momento in cui saremo in grado di girare per le case e per i quartieri con la valigetta con gli attrezzi del Karman, quando faremo le riunioni direttamente nelle case delle donne, creando quel tipo di solidarietà che ogni volta stupisce e che è veramente “tra donne” al di fuori di divisioni generazionali e anche di classe, di ideologia, di mentalità. L’aborto può non essere soltanto un aborto, cioè qualcosa di cui liberarsi in fretta e nel migliore dei modi possibile, ma anche una occasione di presa di coscienza, per mettere in discussione se stesse, il proprio modo di vivere la sessualità, la maternità, i rapporti, il ruolo della famiglia, da parte delle donne soprattutto ma anche degli uomini, mariti-padri-fidanzati che, come diceva una compagna del MLAC “non hanno mai messo molto in discussione della propria vita, e non l’avrebbero forse messo se non ci fosse stato il contatto con il gruppo, l’occasione drammatica dell’aborto”. (Introduzione al libro “Aborto, facciamolo da noi. Una proposta di lotta per l’aborto libero e gratuito in strutture sanitarie pubbliche e un trattamento alternativo per le donne”, a cura di Eugenia Roccella, Napoleone editore, 1975).
Certo: vedendo l’on. Roccella l’errore di un tempo di Buttiglione, ci si poteva aspettare che chi apparteneva alle femministe “che apparivano come scalmanate odiatrici di feti” e sostenevano che “l’aborto esula dal territorio del diritto” (e quindi faceva parte della libera disponibilità e dell’autogestione del corpo delle donne: qui il feto non è odiato, è proprio cancellato) riconoscesse qualche errore anche da parte sua (forse l’ha fatto altrove): in realtà la lettera se la cava con la “radicalizzazione dello scontro” (“come accade sempre quando le lotte politiche arrivano nelle piazze”), cosicché “per anni non c’è stato posto per le sfumature” (a rileggere il brano del 1975, l’espressione sfumature appare, come dire, un po’ sfumata …).
Ma, lasciando da parte la capacità degli uomini politici di pentirsi, l’on. Roccella ha tutti i titoli, come si è visto, per accogliere l’on. Buttiglione tra le femministe e quindi nel valutare la considerazione circa l’affidamento del bambino alla madre da parte di Dio: “Non è un ripensamento, ma la verifica di un’impossibilità: non si può partire dall’opposizione donna contro bambino, se vogliamo tentare di combattere l’aborto, che è la soppressione di una preziosa e unica vita umana”.
Da dove dovremmo partire, allora? Dalla “fine di un pensiero che svalorizza la maternità e il patrimonio della differenza femminile, da parte laica come da parte cattolica. Perché l’antifemminismo laico esiste, eccome: e si nasconde proprio tra chi difende con più ardore l’assoluta uguaglianza, l’appiattimento delle donne sul modello maschile. È l’emancipazione, bellezza: come se le donne non potessero aspirare a nulla di meglio, e di più, che assomigliare agli uomini, disperdendo il patrimonio storico della differenza di genere”.
Avete capito? Nella famiglia tradizionale – marito, moglie, figli – in cui la donna partoriva ed accudiva i figli che Dio aveva mandato in collaborazione con il marito, nella piena fedeltà al disegno divino, vi era “un pensiero che svalorizzava la maternità e il patrimonio della differenza femminile … da parte cattolica”!
Pare alla Roccella che nel nostro paese non ci sia altro da fare, se non partire “dalla libertà di essere madri”.
Giacomo Rocchi
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