Medicina e Persona, associazione fra operatori sanitari di ispirazione cattolica, ha sempre contrastato le dichiarazioni anticipate di trattamento, osservando, in un recente comunicato, che esse "esprimono una concezione che riduce la relazione di cura, cioè il rapporto tra medico e Paziente, ad un livello meramente contrattualistico e rischiano di indurre (come già accaduto in diversi Paesi) atteggiamenti rinunciatari da parte dei professionisti e dei sistemi sanitari, soprattutto nei confronti di malati più deboli e fragili ... Si rischia di produrre un mostro burocratico che solo renderà più legalistica la relazione di cura, senza nessun beneficio per i Pazienti".
Sarebbe facile contrapporre questa posizione, che afferma "la responsabilità sulla situazione clinica del Paziente è di fatto affidata al Medico, la cui azione è orientata esplicitamente alla tutela della vita e della dignità della persona (Art. 13 – 17 – 20 del Codice Deontologico), e che dalla esperienza del rapporto medico-paziente dipendono i giudizi sulla proporzionalità delle terapie e dei trattamenti" a quella di un Veronesi che inserisce nel suo progetto di legge il principio secondo cui "medici e operatori sanitari sono tenuti a rispettare le volontà espresse anticipatamente dalla persona", spiegando che "il principio dell'autodeterminazione è l'unico che garantisce il rispetto della globalità della persona" e affermando solennemente: "Noi pensiamo che nessuno debba decidere per noi": Medicina e Persona erede del "paternalismo medico" e Umberto Veronesi limpido esempio del medico "democratico", a servizio del paziente e della sua volontà, disposto a ritirarsi di fronte al rifiuto della cura, anche contro le proprie convinzioni scientifiche?
Qualcuno è disposto a credere a questa favole?
Il Comitato Nazionale di Bioetica, nel parere sulle Dichiarazioni anticipate di trattamento del 18/12/2003, menzionava un caso di induzione a redigere le dichiarazioni: quello del celebre ospedale londinese che, nel ricoverare pazienti al di là della soglia dei 75 anni, proponeva loro la firma di dichiarazioni di rinuncia a terapia di sostegno vitale, nel caso che nel corso del trattamento sopravvenissero eventi infausti, anche se non estremi, quali la perdita della vista o della mobilità.
Il Comitato esplicitamente si chiedeva se si trattasse di una proposta o di una imposizione, osservando che essa giungeva in un momento di particolare fragilità dei pazienti, sia fisica, "sia, soprattutto, psichica". Il parere evidenziava "il rischio che sotto il pretesto di implementazione delle dichiarazioni anticipate si cerchi surrettiziamente di favorire nei pazienti, e soprattutto in quelli più anziani, un atteggiamento di resa nei confronti della morte, che potrebbe tragicamente e indegnamente trasformare l'assistenza ai pazienti terminali in una burocratica accelerazione del processo del morire".
Ebbene sì: sono proprio i medici - alcuni medici - a spingere per l'introduzione del testamento biologico; sono loro quelli che mettono sotto gli occhi ai ragazzi il modulo già pronto per essere firmato "nel caso succedesse un incidente"; sono gli stessi che da una parte esaltano il potere e il progresso della scienza, dall'altra pretendono di suggerirci che lo stato vegetativo persistente è una non-vita e che sono fondamentali anche i problemi di distribuzione delle risorse sanitarie (Veronesi sottolinea come il problema maggiore deriva dall'essere i soggetti in SVP giovani e, quindi, dal prolungarsi il "problema" del loro mantenimento in vita per decenni).
Del resto ci siamo abituati a conoscerli, questi "sacerdoti" della vita e della morte, che distribuiscono saggezza in televisione o sulle rubriche dei giornali, se possibile nascondendo gli intrighi accademici, le guerre tra bande, le truffe, i fallimenti.
Pensiamo davvero che questi medici siano disposti a far decidere noi?
Giacomo Rocchi
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