Questo strumento nasce per evidenziare iniziative, idee, provocazioni, approfondimenti, a difesa della vita, dal concepimento naturale alla morte naturale.
giovedì 29 gennaio 2009
L'esperto
Pellegrino avverte il governatore: "L'articolo 388 prevede per chi lo viola una pena fino a tre anni di reclusione". E aggiunge: "Visto che per le violazioni del Codice penale non c'e' bisogno di una denuncia della parte lesa, ma basta la notizia di reato che e' stata pubblicata su tutti i giornali, mi chiedo perche' la Procura non abbia gia' provveduto".
Articolo 388 codice penale, ultimo comma: "Il colpevole è punito a querela della persona offesa".
Povero cittadino ...
Giacomo Rocchi
Mons. Fisichella ha letto la Dignitas Personae?
domenica 25 gennaio 2009
Una grande lezione americana
lunedì 19 gennaio 2009
Cattivi maestri/2
"quindi le famiglie, i consultori dell’Asl, gli insegnanti di scuola, tutta quanta la società “adulta” dovrebbe prendere atto di questa realtà e suggerire solo una cosa agli adolescenti: il preservativo e la pillola del giorno dopo" taglia corto Fiorenza Giorgi, magistrato che nel palazzo di giustizia ricopre proprio il delicatissimo ruolo di giudice tutelare e non ha mai negato la sua decisa posizione pro-aborto quando si tratta di minorenni.
giovedì 15 gennaio 2009
La fecondazione artificiale uccide anche le donne
domenica 11 gennaio 2009
Non nel mio nome: riflessioni su Cassazione 21748/07
E’ circostanza nota a tutti che la Corte d’Appello di Milano, dietro “mandato” della Suprema Corte di Cassazione – sent. 21748/07, presidente dott.ssa Maria Gabriella Luccioli, con proprio decreto, volutamente dichiarato immediatamente esecutivo, ha autorizzato il tutore di Eluana Englaro a sospenderle l’alimentazione. (Non uso l’aggettivo forzata che di solito viene posto a fianco del detto termine, poiché ritengo che non vi sia nessuna forzatura nel dare cibo e acqua a qualsivoglia soggetto, posto che lo stimolo della fame e della sete sorge naturale in ogni essere umano).
Singolare, come dicevo, l’aver previsto l’immediata esecutorietà ad un provvedimento di tal fatta, quando in via ordinaria (art. 741 comma 1° c.p.c.), la regola prevede che il provvedimento divenga esecutivo quando siano spirati i termini per eventuali ricorsi alla giudice superiore.
Singolare, appunto, quasi a voler cristallizzare con la morte della sventurata ragazza, i principi giuridicamente eversivi (qui, a mio giudizio, si esce anche dal canone della creatività), esposti nella citata sentenza delle Suprema Corte di Cassazione. Provvedimento che, in nome del principio dell’assoluta autonomia dell’essere umano, figlio delle teorie superominiche del novecento e dell’utilitarismo consumistico, mette nel nulla il principio di diritto naturale di intangibilità della vita umana, negando, con abili sofismi, che l’ordinamento costituzionale tuteli la vita quale valore superiore anche alla libertà personale.
Ciò che più mi sorprende, tra le tante obiezioni che si possono muovere alla citata sentenza, che autorizza in concreto la morte di una donna per fame e sete, è il fatto che se esiste un diritto assoluto all’autodeterminazione, fino a legittimare, ovvero ritenere giuridicamente tutelabile una volontà suicidaria, deve, per forza di cose esistere anche il dovere, da imporre a medici o a dei “boia di stato”, appositamente reclutati, di rendere attuale il diritto all’autodeterminazione per quelle persone che non sono in grado di farlo in via autonoma.
Nello spirito del nostro ordinamento giuridico, che affonda le sue radici in 2000 anni di cristianesimo, l’offesa alla vita umana, anche se proveniente dallo stesso titolare del diritto, è stata sempre deprecata, tanto da prevedere sanzioni penali per tutti coloro che aiutano il suicida e, a contrario, è previsto che ci si attivi sempre per salvare la vita di un uomo, anche di quello che, tentando di suicidarsi non vi sia riuscito, pena l’omissione di soccorso. Ora, però, visto che la Suprema Corte ravvisa nella irreversibilità del quadro clinico e nella volontà del paziente di morire le due condizioni che legittimano una condotta omissiva volta a permettere la morte, c’è da domandarsi se il medico che giunga a soccorre un soggetto che ha tentato il suicidio, accertato un quadro clinico disperato, sia ancora tenuto a tentare di rianimare il paziente o debba astenersi davanti a quella che è la massima espressione dell’autonomismo umano, ovvero l’atto suicidario.
La sentenza in discorso, introducendo di fatto nell’ordinamento la possibilità per l’incapace, di essere lasciato morire, purché abbia in precedenza, manifestato in qualsivoglia maniera tale “desiderio”, porta la legge ordinaria e costituzionale oltre i suoi confini. Il famoso articolo 32 comma 2° della costituzione che darebbe copertura al ragionamento della Corte Suprema, vera ispiratrice e mandante necessario, dell’atto esecutivo della Corte d’Appello di Milano, venne per vero voluto, dai suoi presentatori on.le Aldo Moro e Paolo Rossi, per tutt’altre ragioni, ovvero per tutelare il cittadino nei confronti dello Stato contro pratiche lesive delle dignità umana: si legge nel resoconto sommario della seduta di martedì 28 gennaio 1947 “…. Si tratta prevalentemente del problema della sterilizzazione e di altri problemi accessori”. Non certo per sancire il diritto ad una dolce morte, così come vuole farci intendere la Suprema Corte.
A giudizio di chi scrive, pertanto, si può rilevare come la S.C. anziché essere fedele interprete della legge, abbia voluto sostituirsi al legislatore e per via “interpretativa” abbia introdotto di fatto l’istituto del testamento biologico. Istituto assente nel nostro ordinamento, tanto è vero che nella scorsa legislatura sono stati molti i disegni di legge presentati per rendere lecito il c.d. testamento biologico.
A conclusione di questa riflessione, mi sovvengono le parole di Gesù nel vangelo di Matteo al capitolo 25, rivolte a quelli che stanno alla sua sinistra: “ho avuto fame e non mi avete dato da magiare, ho avuto sete e non mi avete dato da bere……” Se questo sarà il metro di giudizio, è bene che la nostra società rifletta e per quel che mi è possibile voglio affermare, anche pubblicamente, che i giudizi pronunciati da quei tribunali in nome del popolo italiano, non sono pronunciati in nome mio.
Pietro Brovarone
giovedì 8 gennaio 2009
Eluana Englaro: la grande menzogna/3
Eluana non ha mai chiesto di essere uccisa, nemmeno quando si è rappresentata lo stato di incoscienza in cui avrebbe potuto cadere.
La Corte di Cassazione, nella sentenza dell’ottobre 2007, è d’altro canto chiarissima nel disegnare una finzione: "il tutore deve decidere ‘con’ l’incapace: quindi ricostruendo la volontà presunta del paziente incosciente, già adulto prima di cadere in tale stato, tenendo conto dei desideri da lui espressi prima della perdita di conoscenza, ovvero inferendo quella volontà dalla sua personalità, dal suo stile di vita, dalle sue inclinazioni, dai suoi valori di riferimento e dalle sue convinzioni etiche, religiose, culturali e filosofiche”.
Quindi volontà presunta, non accertata ed attuale; volontà desunta anche se non esplicita, quindi volontà non accertata.
Di qui la grottesca istruttoria tenuta dalla Corte d'Appello di Milano (ovviamente senza contraddittorio, senza che nessun difensore di Eluana potesse controesaminare i testimoni o indicare testi che riferissero circostanze diverse): con la Corte che, in primo luogo, smentisce se stessa (nel 2006 aveva sostenuto che non si poteva “evincere una volontà sicura di Eluana contraria alle prosecuzione delle cure e dei trattamenti che attualmente la tengono in vita”), poi indica come fonte principale di conoscenza la testimonianza dello stesso tutore che chiede la morte dell’incapace, infine inizia ad argomentare in modo confuso e inconcludente sul carattere indipendente, amante della vita e deciso della ragazza.
Secondo Beppino Englaro (che, si ricordi, non crede affatto di dover rispettare l’autodeterminazione della figlia, ma pretende di ucciderla perché la ritiene sostanzialmente morta) “in vari frangenti Eluana avrebbe manifestato la ferma convinzione che restare in quelle condizioni non sarebbe stato per lei, un vero vivere, perché solo una vita piena, o comunque in condizione di muoversi, di pensare, di comunicare e di rapportarsi con gli altri avrebbe meritato di essere vissuta, mentre non lo sarebbe stato una vita meramente biologica”: come si vede nessuna richiesta di essere uccisa; mentre le amiche sentite avrebbero “tratteggiato una sorta di modello personologico di Eluana”.
Ma l’oggetto della testimonianza delle amiche non è certo una volontà di Eluana di morire. Ad esempio: “Eluana dava un valore molto profondo alla vita che, però, secondo lei, doveva essere vissuta fino in fondo. Non avrebbe mai accettato una vita con limitazioni sia di tipo fisico che mentale” (come si vede la testimonianza è sulla convinzioni di Eluana sul valore della vita, mentre il rifiuto rispetto ad una vita con limitazioni è una deduzione dell’amica); o ancora: “Eluana era vivacissima – non stava mai ferma – doveva sempre fare qualcosa – diventava matta all’idea di stare un pomeriggio in casa – era lei che organizzava e animava la compagnia degli amici”, descrizione che in nessun modo permette di dedurre una volontà della giovane di morire nel caso fosse caduta in uno stato di incoscienza.
Ma anche la testimonianza sulle parole dette da Eluana di fronte all’amico caduto in coma a seguito di un incidente (“era meglio che fosse morto piuttosto che rimanere immobile in un ospedale in balìa di altri attaccato ad un tubo – per cui era meglio morire”) non permettono affatto di affermare che la giovane voleva essere uccisa nel caso ciò fosse capitato a lei.
Un altro aspetto è trascurato: Eluana aveva pronunciato quelle frasi senza alcuna consapevolezza che sarebbero state utilizzate contro di lei in un procedimento giudiziario, quindi senza nessuna volontà di attribuire ad esse un effetto giuridico: la ragazza non sapeva che i medici che l’avrebbero curata avrebbero considerato quelle frasi come vincolanti e che quella sopra riportata – detta sapendo bene che all’amico non avrebbero tolto i tubi che lo tenevano in vita – sarebbe stata interpretata come una condanna a morte nei suoi confronti.
Giustamente è stato detto che, dopo la sentenza della Cassazione, dobbiamo stare tutti attenti a quello che diciamo, in qualsiasi occasione e parlando con qualsiasi persona.
Insomma: non è stata Eluana, ma il padre a decidere la sua morte; e infatti la Corte d’Appello di Milano ritiene necessario e sufficiente accertare che la richiesta di interruzione del trattamento formulata dal padre in veste di tutore rifletta gli orientamenti di vita della figlia.
Giacomo Rocchi
lunedì 5 gennaio 2009
Chi vuole l'eutanasia in Italia?
domenica 4 gennaio 2009
Eluana Englaro: la grande menzogna/2
È davvero significativa l’intestazione del provvedimento della Corte d’Appello di Milano che autorizza l’uccisione di Eluana: è un decreto e non è pronunciato in nome del popolo italiano (solo le sentenze vengono pronunciate in nome del popolo italiano).
La natura di questione privata – anzi di questione in cui si verte in materia di diritti personalissimi – è stata la via d’uscita per la Cassazione, nell’ultima sentenza del 13/11/2008, per dichiarare inammissibile il ricorso del Pubblico Ministero ed evitare (anzi: rifiutandosi) di decidere nel merito la questione.
Il Pubblico Ministero rappresenta l’interesse pubblico al contenuto di determinate decisioni giudiziarie, anche se pronunciate tra privati: in questo caso – sulla base di un’interpretazione assolutamente formalista del codice di procedura civile – la Cassazione ha stabilito che l’interesse pubblico c’era … ma non troppo: il P.M. poteva intervenire nel giudizio, ma non poteva proporre ricorso per cassazione …
Anche la Corte Europea dei diritti dell’Uomo, nel dichiarare “irricevibile” il ricorso di alcune associazioni tendente a difendere il diritto a vivere di Eluana Englaro, ha accreditato la tesi che si tratta di una “questione privata”, che riguarda solo le parti direttamente coinvolte e su cui nessuno che non abbia un legame diretto con la giovane può intervenire.
In realtà l’intera procedura è stata pensata e realizzata con lo scopo di non avere nessun reale contraddittorio: nel primo ricorso Beppino Englaro era solo: lui e la Cassazione; tanto che la Cassazione, nel 2005, aveva ritenuta necessaria necessaria la nomina di un curatore speciale che si contrapponesse alle domande dell’Englaro. Risultato: viene nominato un avvocato che, da quel momento, si associa e rinforza le domande del padre …
Eluana non l’ha difesa nessuno!
La scelta di passare per le vie della cosiddetta “volontaria giurisdizione” è poi il motivo della sostanziale ineseguibilità del decreto.
La Regione Lombardia ha tutte le ragioni per rifiutarsi di eseguire in una sua struttura la decisione della Corte d’Appello di Milano: non solo perché gli ospedali sono fatti per curare le persone e non per ucciderle, ma anche perché la decisione non fa stato nei confronti di nessuno (se non lo stesso Beppino Englaro), perché a nessuno è stato permesso di partecipare al processo.
E così legittimamente il Ministro delle politiche sociali ha potuto emanare un atto di indirizzo alle Regioni, in cui vieta l'interruzione della nutrizione e dell’alimentazione ai pazienti in stato vegetativo, ritenendola “una discriminazione fondata su valutazioni circa la qualità della vita di una persona con grave disabilità e in situazione di totale dipendenza”. Il Ministro non fa alcun cenno alla vicenda giudiziaria riguardante Eluana Englaro: se si tratta di questione privata il sistema sanitario non è né coinvolto né tanto meno costretto ad adeguarsi ai provvedimenti emessi.
La Corte d’Appello finge che questo problema non esista quando descrive modalità esecutive:
“in accordo con il personale medico e paramedico che attualmente assiste o verrà chiamato ad assistere Eluana, occorrerà fare in modo che l’interruzione del trattamento di alimentazione e idratazione artificiale con sondino naso – gastrico, la sospensione dell’erogazione di presidi medici collaterali (antibiotici o antinfiammatori ecc.) o di altre procedure di assistenza strumentale, avvengano, in hospice o altro luogo di ricovero confacente, ed eventualmente – se ciò sia opportuno ed indicato in fatto dalla miglior pratica della scienza medica – con perdurante somministrazione di quei soli presidi già attualmente utilizzati atti a prevenire o eliminare reazioni neuromuscolare paradosse (come sedativi o antiepilettici) e nel solo dosaggio funzionale a tale scopo, comunque con modalità tali da garantire un adeguato e dignitoso accudimento accompagnatorio della persona (ad esempio anche con umidificazione frequente delle mucose, somministrazione di sostanze idonee ad eliminare l’eventuale disagio da carenza di liquidi, cura dell’igiene del corpo e dell’abbigliamento ecc.) durante il periodo in cui la sua vita si prolungherà dopo la sospensione del trattamento, ed in modo da rendere sempre possibili le visite, la presenza e l’assistenza, almeno, dei suoi stretti familiari”; ma i giudici fingono che il personale medico e paramedico e la direzione dell’hospice che eventualmente permettesse o agevolasse l’uccisione della malata sarebbe esente da ogni responsabilità penale, mentre -al limite - ciò varrebbe solo per Beppino Englaro: il personale sanitario ha l’obbligo di salvare una persona che sta morendo e avrebbe, quindi, l’obbligo di rimettere il sondino che il padre staccasse.
Il passo riportato dimostra che la Corte d’Appello è perfettamente a conoscenza del disagio (sic!) che proverà Eluana, ma chiude entrambi gli occhi; invoca la miglior pratica della scienza medica, ma ci si chiede dove questa pratica sia stata esercitata: negli Stati dove vige la pena di morte? Si notino ancora i passaggi semplicemente crudeli (le mucose di Eluana saranno umidificate, ma – attenzione! – nessuna goccia d’acqua deve entrare nel suo corpo! I sedativi e gli antiepilettici dovranno essere somministrati nella misura minima necessaria allo scopo …) e quelli grotteschi (Eluana dovrà morire di fame e di sete, ma curata nell’abbigliamento e pettinata!).
I giudici non hanno conosciuto e visto davvero Eluana e quindi possono mettere nero su bianco le prescrizioni opportune per farla morire con il minor disagio possibile.
La mancanza di contraddittorio ha inciso ovviamente anche sulla attendibilità scientifica del provvedimento della Corte d’Appello di Milano che ha come unica fonte di conoscenza specifica la relazione del dr. Defanti, risalente ad alcuni anni addietro; la Corte nota che “non risulta che la correttezza e la attendibilità scientifica di tale relazione sia mai stata posta in dubbio da alcun contraddittore processuale del tutore (né dal P.M., né dalla curatrice speciale …)”; è stata la curatrice speciale (un avvocato!) a “confermare anche ora, per quanto a sua conoscenza, l’effettiva mancanza di variazioni dello stato di Eluana”. Nient’altro.
E così si ritiene lo stato vegetativo permanente e irreversibile, nonostante le recenti scoperte e anche l'evoluzione nello stato della giovane; mentre – quanto alla nutrizione – ci si limita a registrare quanto annotava Defanti (“nutrizione indotta tramite sondino nasogastrico”), cosicché la rivelazione del prof. Dolce – che cioè Eluana Englaro è in grado di deglutire e che, quindi, potrebbe essere tentata nei suoi confronti la nutrizione per via naturale – dimostra ancor di più la fragilità delle convinzioni dei Giudici sotto il profilo scientifico.
Giacomo Rocchi
venerdì 2 gennaio 2009
Eluana Englaro: la grande menzogna/1
La prima menzogna è quella che Beppino Englaro ha sempre ripetuto: che cioè Eluana era morta il giorno dell’incidente.
I dati scientifici hanno permesso a tutti di comprendere che si tratta di affermazione palesemente falsa, ma si impone una riflessione: se è questo il vero punto di partenza di chi ha chiesto il provvedimento giudiziario, e se i Giudici hanno accolto la sua domanda, è legittimo dubitare di chi presenta la vicenda Englaro come il trionfo dell’autodeterminazione del malato.
Davvero le pronunce hanno dato attuazione alla volontà di Eluana di essere lasciata morire?
Quello che si può osservare è che la convinzione espressa da Beppino Englaro a voce (che cioè la figlia sarebbe morta) ha avuto un evidente riflesso sull’impostazione dei suoi ricorsi, sui motivi che egli ha indicato ai Giudici per sostenere il suo diritto a staccare il sondino.
Nel secondo ricorso al Tribunale di Lecco (2002) Englaro – pur non sostenendo quanto non era sostenibile, che cioè la figlia fosse morta – sottolineava “la necessità di sottrarre la figlia alle condizioni di vita disumane e degradanti nella quale era costretta a proseguire la propria esistenza”; nel primo ricorso per cassazione egli sì, richiamava l’articolo 32 della Costituzione, non però per rimarcare la volontà della figlia di non vivere in quello stato, ma solo per sottolineare la mancanza di consenso al trattamento “riguardo ad atti che si configurano come invasivi della sua personale integrità psicofisica”, ponendo poi l’accento sulla “tutela della dignità umana” che, attraverso l’articolo 32 della Costituzione, “preclude trattamenti sanitari che possono violare il rispetto della persona umana, la cui perdita, in caso di soggetto in stato vegetativo permanente, è in re ipsa”.
La Cassazione così riassumeva la posizione del tutore: “Il tutore, ritenendo che l’interdetta versi da moltissimi anni in stato meramente vegetativo, nel quale a suo avviso è mantenuta mediante presidi sanitari, e che tale stato, in quanto escludente la dignità umana, fa escludere la ricorrenza della vita intesa nella sua portata minima imprescindibile, ha chiesto l’autorizzazione alla cessazione di detti presidi”.
Ecco l’impostazione originaria: la “tutela della dignità umana è inscindibile da quella della vita stessa”; nel caso di un paziente in stato vegetativo la (affermata secondo la valutazione del tutore) mancanza della dignità fa escludere la ricorrenza della vita.
Eluana – si sosteneva davanti ai Giudici – è sostanzialmente morta.
Quello che sembra dimenticato è che questa posizione dell’Englaro è rimasta ferma – sotto il profilo strettamente giuridico – fino alla sentenza della Cassazione del 16/10/2007 che, al contrario, sembra basata sul principio di autodeterminazione e che ha indotto la Corte d’Appello di Milano ad effettuare quell’istruttoria da cui avrebbe dedotto la volontà di Eluana di “non vivere così”.
Il ricorso di Englaro non era affatto basato sull’autodeterminazione della figlia. Anzi, si sosteneva esplicitamente:
“la garanzia del diritto alla vita è più complessa per soggetti incapaci di intendere e di volere che non per chi abbia coscienza e volontà. Per chi sia cosciente e capace di volere la prima garanzia del proprio diritto alla vita risiede nella volontà di autodeterminazione rispetto all’ingerenza altrui, ove pure consista in una cura da erogarsi in nome del mantenimento alla vita.
Lo stesso tipo di garanzia non è sostenibile per chi sia in stato di capacità”.
Tutto il ricorso di Englaro è basato non sulla volontà di Eluana (anzi, rispetto ad una prima istruttoria già espletata dalla Corte d’Appello, il ricorrente ne minimizza l’importanza: “I convincimenti di Eluana sarebbero stati chiesti e sarebbero stati oggetto di istruttoria non perché taluno potesse pensare che essi, manifestati in un tempo lontano, quando ancora Eluana era in piena salute, valgano oggi come manifestazione di volontà idonea, equiparabile ad un dissenso in chiave attuale dai trattamenti che ella subisce”), ma su una valutazione oggettiva (o meglio: che si pretende oggettiva) dei trattamenti e delle cure erogati ad Eluana come accanimento terapeutico che non deve essere erogato a pazienti in determinate condizioni:
“Lo SVP è uno stato unico e differente da qualunque altro, non accostabile in alcun modo a stati di handicap o di minorità, ovvero a stati di eclissi della coscienza e volontà in potenza reversibili come il coma. Nello SVP può effettivamente darsi il problema del riscontro di qualunque beneficio o una qualunque utilità tangibile del trattamenti o delle cure, solo finalizzate a posporre la morte sotto l’angolo visuale biologico”.
Ritorna la teorizzazione dello stato di quasi morte, la contrapposizione tra una vita naturale e una vita artificiale, che non è vita e che non vale la pena di prolungare. In un passo del ricorso Englaro avanza una excusatio non petita davvero significativa:
“Certamente non ci si deve permettere, neppure e anzi a maggior ragione per chi sia incapace o abbia minorazioni, di distinguere tra vite degne e non degne di essere vissute. Il che non toglie, tuttavia, che vi siano casi in cui, per il prolungamento artificiale della vita, non si dia riscontro di utilità o di beneficio alcuno e in cui, quindi, l’unico risultato prodotto dal trattamento o dalla cura è di sancire il trionfo della scienza medica nel vincere l’esito naturale della morte. Tale trionfo è però un trionfo vacuo, ribaltabile in disfatta, se per il paziente e la sua salute non c’è altro effetto o vantaggio. Non è la vita in sé, che è un dono, a potere mai essere indegna; ad essere indegno può essere solo il protrarre artificialmente il vivere, oltre a quello che altrimenti avverrebbe, solo grazie all’intervento del medico o comunque di un altro, che non è la persona che si costringe alla vita”.
Beppino Englaro strenuo difensore dell’autodeterminazione della figlia? Piuttosto strenuo assertore: a) della non spettanza ai malati in Stato Vegetativo Permanente (in realtà: Persistente) del diritto alla vita; b) del diritto a controllare giudizialmente le cure prestate dai medici; c) dell’inutilità – oggettiva, assoluta – di ogni cura che permetta a malato in SVP di continuare a vivere.
Giacomo Rocchi