venerdì 2 gennaio 2009

Eluana Englaro: la grande menzogna/1

Se il contrario di vita è morte ed il contrario di verità è menzogna, i provvedimenti che hanno autorizzato Beppino Englaro ad uccidere la figlia sono provvedimenti di morte fondati su numerose menzogne.

La prima menzogna è quella che Beppino Englaro ha sempre ripetuto: che cioè Eluana era morta il giorno dell’incidente.
I dati scientifici hanno permesso a tutti di comprendere che si tratta di affermazione palesemente falsa, ma si impone una riflessione: se è questo il vero punto di partenza di chi ha chiesto il provvedimento giudiziario, e se i Giudici hanno accolto la sua domanda, è legittimo dubitare di chi presenta la vicenda Englaro come il trionfo dell’autodeterminazione del malato.
Davvero le pronunce hanno dato attuazione alla volontà di Eluana di essere lasciata morire?

Quello che si può osservare è che la convinzione espressa da Beppino Englaro a voce (che cioè la figlia sarebbe morta) ha avuto un evidente riflesso sull’impostazione dei suoi ricorsi, sui motivi che egli ha indicato ai Giudici per sostenere il suo diritto a staccare il sondino.
Nel secondo ricorso al Tribunale di Lecco (2002) Englaro – pur non sostenendo quanto non era sostenibile, che cioè la figlia fosse morta – sottolineava “la necessità di sottrarre la figlia alle condizioni di vita disumane e degradanti nella quale era costretta a proseguire la propria esistenza”; nel primo ricorso per cassazione egli sì, richiamava l’articolo 32 della Costituzione, non però per rimarcare la volontà della figlia di non vivere in quello stato, ma solo per sottolineare la mancanza di consenso al trattamento “riguardo ad atti che si configurano come invasivi della sua personale integrità psicofisica”, ponendo poi l’accento sulla “tutela della dignità umana” che, attraverso l’articolo 32 della Costituzione, “preclude trattamenti sanitari che possono violare il rispetto della persona umana, la cui perdita, in caso di soggetto in stato vegetativo permanente, è in re ipsa”.

La Cassazione così riassumeva la posizione del tutore: “Il tutore, ritenendo che l’interdetta versi da moltissimi anni in stato meramente vegetativo, nel quale a suo avviso è mantenuta mediante presidi sanitari, e che tale stato, in quanto escludente la dignità umana, fa escludere la ricorrenza della vita intesa nella sua portata minima imprescindibile, ha chiesto l’autorizzazione alla cessazione di detti presidi”.
Ecco l’impostazione originaria: la “tutela della dignità umana è inscindibile da quella della vita stessa”; nel caso di un paziente in stato vegetativo la (affermata secondo la valutazione del tutore) mancanza della dignità fa escludere la ricorrenza della vita.
Eluana – si sosteneva davanti ai Giudici – è sostanzialmente morta.

Quello che sembra dimenticato è che questa posizione dell’Englaro è rimasta ferma – sotto il profilo strettamente giuridico – fino alla sentenza della Cassazione del 16/10/2007 che, al contrario, sembra basata sul principio di autodeterminazione e che ha indotto la Corte d’Appello di Milano ad effettuare quell’istruttoria da cui avrebbe dedotto la volontà di Eluana di “non vivere così”.

Il ricorso di Englaro non era affatto basato sull’autodeterminazione della figlia. Anzi, si sosteneva esplicitamente:
“la garanzia del diritto alla vita è più complessa per soggetti incapaci di intendere e di volere che non per chi abbia coscienza e volontà. Per chi sia cosciente e capace di volere la prima garanzia del proprio diritto alla vita risiede nella volontà di autodeterminazione rispetto all’ingerenza altrui, ove pure consista in una cura da erogarsi in nome del mantenimento alla vita.
Lo stesso tipo di garanzia non è sostenibile per chi sia in stato di capacità”.
Tutto il ricorso di Englaro è basato non sulla volontà di Eluana (anzi, rispetto ad una prima istruttoria già espletata dalla Corte d’Appello, il ricorrente ne minimizza l’importanza: “I convincimenti di Eluana sarebbero stati chiesti e sarebbero stati oggetto di istruttoria non perché taluno potesse pensare che essi, manifestati in un tempo lontano, quando ancora Eluana era in piena salute, valgano oggi come manifestazione di volontà idonea, equiparabile ad un dissenso in chiave attuale dai trattamenti che ella subisce”), ma su una valutazione oggettiva (o meglio: che si pretende oggettiva) dei trattamenti e delle cure erogati ad Eluana come accanimento terapeutico che non deve essere erogato a pazienti in determinate condizioni:
“Lo SVP è uno stato unico e differente da qualunque altro, non accostabile in alcun modo a stati di handicap o di minorità, ovvero a stati di eclissi della coscienza e volontà in potenza reversibili come il coma. Nello SVP può effettivamente darsi il problema del riscontro di qualunque beneficio o una qualunque utilità tangibile del trattamenti o delle cure, solo finalizzate a posporre la morte sotto l’angolo visuale biologico”.
Ritorna la teorizzazione dello stato di quasi morte, la contrapposizione tra una vita naturale e una vita artificiale, che non è vita e che non vale la pena di prolungare. In un passo del ricorso Englaro avanza una excusatio non petita davvero significativa:
“Certamente non ci si deve permettere, neppure e anzi a maggior ragione per chi sia incapace o abbia minorazioni, di distinguere tra vite degne e non degne di essere vissute. Il che non toglie, tuttavia, che vi siano casi in cui, per il prolungamento artificiale della vita, non si dia riscontro di utilità o di beneficio alcuno e in cui, quindi, l’unico risultato prodotto dal trattamento o dalla cura è di sancire il trionfo della scienza medica nel vincere l’esito naturale della morte. Tale trionfo è però un trionfo vacuo, ribaltabile in disfatta, se per il paziente e la sua salute non c’è altro effetto o vantaggio. Non è la vita in sé, che è un dono, a potere mai essere indegna; ad essere indegno può essere solo il protrarre artificialmente il vivere, oltre a quello che altrimenti avverrebbe, solo grazie all’intervento del medico o comunque di un altro, che non è la persona che si costringe alla vita”.

Beppino Englaro strenuo difensore dell’autodeterminazione della figlia? Piuttosto strenuo assertore: a) della non spettanza ai malati in Stato Vegetativo Permanente (in realtà: Persistente) del diritto alla vita; b) del diritto a controllare giudizialmente le cure prestate dai medici; c) dell’inutilità – oggettiva, assoluta – di ogni cura che permetta a malato in SVP di continuare a vivere.

Giacomo Rocchi

3 commenti:

  1. La tua analisi dei testi dei provvedimenti riporta a galla la menzogna grave che è stata usata per ottenere il fine vero di tutta questa storia di cui Eluana è doppiamente vittima. Vittima di unoa sbandierata volontà di uccisione pubblica, vittima di un tentativo di utilizzarla come cavia per aprire la strada a forme di eutanasia legale. Come su Aborto e Legge 40 sulla fivet la menzogna è il mezzo principale usato dai radicali e co. per la cultura della morte.

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  2. Signor Beppino,
    oggi ha una figlia ancora viva, domani no.
    Ha mai pensato all'ingegneria genetica? I cromosomi di sua figlia sono ancora vivi e vitali. Si potrebbe tentare una clonazione. Ci pensi, molti la aiuterebbero con una sottoscrizione. Saluti, coraggio

    Leone Parolo

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