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domenica 3 novembre 2013

In Italia è sempre urgente uccidere un bambino malato


L'Espresso continua a raccogliere "testimonianze" che dovrebbero dimostrare che la legge 194 sull'aborto in Italia è disapplicata e che la colpa è tutta degli obiettori di coscienza. 
Quella che potete leggere proviene da tale "Roberta" e, ovviamente, la realtà dei fatti raccontati non può essere verificata (non sappiamo se la redazione della rivista provvede a degli accertamenti dopo avere ricevuto le lettere). 


Una sintesi di questi fatti? La donna viene a sapere della malattia cardiaca del bambino il 12 settembre e il 22 settembre viene sottoposta all'intervento abortivo. La donna mostra tutta la sua indignazione verso gli obiettori, ma non riesce a nascondere un fatto: ella può rivolgersi a tutti gli ospedali che vuole e, dopo pochi tentativi, una struttura pubblica gli fornisce il "servizio" richiesto cinque giorni dopo che ella ha avanzato la prima richiesta: sì, perché, come emerge dallo stesso racconto della donna, ella ha avanzato la prima richiesta di abortire solo dopo il 17 settembre. 

Cinque giorni: perché uccidere un bambino malato è evidentemente urgente nel nostro Paese, molto più che eseguire interventi chirurgici anche importanti ... siete mai riusciti a sottoporvi all'intervento per voi necessario in cinque giorni dal momento della richiesta?
Ma come ha fatto Roberta ad abortire in cinque giorni? Sappiamo - lo dice Lei - che ella aveva superato la 22a settimana di gravidanza: quindi si tratta di aborto compiuto dopo i primi novanta giorni, regolato dall'art. 6 della legge 194. Non solo: come la seconda dottoressa aveva spiegato a Roberta, la gravidanza aveva già superato un limite: quello per cui "sussiste la possibilità di vita autonoma del feto"; in altre parole, il bambino, una volta "abortito" (cioè, partorito con parto indotto: infatti Roberta dice proprio di aver partorito), se adeguatamente assistito potrebbe sopravvivere. 
Cosa prevede la legge 194 in questi casi? L'aborto può essere praticato solo quando la gravidanza e il parto comportino un grave pericolo per la vita della donna e, inoltre, il medico che esegue l'intervento deve adottare ogni misura utile a salvaguardare la vita del feto. 
Roberta era in "pericolo di vita"? La lettera non lo dice affatto; fa cenno ad una "lettera della psichiatra cui mi ero rivolta" senza specificare il suo contenuto. Sì, perché, evidentemente, in quei cinque giorni la donna aveva fatto a tempo anche a fare una visita psichiatrica (oppure no? La psichiatra ha mandato una "lettera" senza visitarla?) e la specialista aveva avuto il tempo di certificare qualcosa (il pericolo per la salute psichica? il pericolo per la vita?). 
Ma - come anche questa "testimonianza" dimostra - in Italia "fatta la legge ....": il responsabile del reparto dell'ospedale al quale la donna si era rivolta "mi fece ricoverare d'urgenza per un aborto terapeutico dicendomi che mi avrebbe aiutato perché non si poteva pensare di far nascere un bambino in quelle condizioni". 
E allora: l'articolo 7 della legge prevede che "qualora l'interruzione della gravidanza si renda necessaria per l'imminente pericolo di vita della donna, l'intervento può essere praticato anche senza lo svolgimento delle procedure". Ci vuole un "imminente pericolo per la vita della donna": la donna potrebbe morire entro un brevissimo tempo se l'aborto non venisse eseguito. 
Ricorrevano queste condizioni? Assolutamente no: Roberta non stava affatto morendo e, del resto, il medico aveva preso quella decisione per "aiutarla". 
E allora: il racconto di Roberta (come si è detto, da verificare) ci narra di medici che fanno interamente il loro lavoro (il radiologo che riferisce della malattia del bambino e risponde anche alla donna che manifesta la volontà di abortire richiamando la legge 194) e di altri che - a quanto sembra - fanno "carte false" per procedere ad un aborto che la legge non permette. 
Qualcuno all'Espresso si sarà chiesto se la certificazione del medico era ideologicamente falsa perché attestava un imminente pericolo per la vita della donna che, in realtà, non esisteva? Sarà venuto il dubbio che, forse, in quel certificato, il medico aveva anche attestato falsamente una settimana di gravidanza anteriore a quella effettiva, per eludere il dettato della legge? E poi: qualcuno si sarà chiesto se il medico che aveva eseguito l'aborto aveva adottato ogni misura utile a salvaguardare la vita del bambino, dopo l'aborto?
Tutti comportamenti che la legge 194 - sì, proprio quella di cui si invoca l'applicazione! - sanziona penalmente. 
Roberta conclude la sua "testimonianza" con un giudizio severo sui medici obiettori: "non è così che dovrebbero esercitare il loro mestiere, perché davanti a ogni pensiero dev'esserci il rispetto per la persona che si ha davanti": ma noi sappiamo che il medico che aveva eseguito l'ecografia aveva rispetto per "la persona che aveva davanti", tanto che si rifiutava di ucciderla ... Davvero aveva lo stesso rispetto il medico che, in pochi istanti, decise di "aiutare" la donna uccidendole il figlio malato e facendola entrare in quel "tunnel" da cui ella spera, "prima o poi", di uscire?
Giacomo Rocchi

sabato 16 maggio 2009

La salute delle donne uccide le bambine

Secondo un servizio della televisione svedese, le autorità sanitarie della Svezia hanno stabilito che l'aborto motivato dal sesso del nascituro non è illegale e pertanto non può essere impedito. La statuizione era stata sollecitata da un medico al quale si era rivolta una donna, che già due volte in precedenza aveva abortito in conseguenza del sesso del bambino, e che aveva chiesto un'amniocentesi sia per accertare eventuali anomalie del feto, sia per conoscere se si trattava di maschio o di femmina. Il medico ha chiesto al Dipartimento Nazionale della Salute di indicare delle linee guida per sapere come comportarsi nel futuro di fronte a richieste di conoscere il sesso del feto senza che vengano addotte motivi di carattere medico; il Dipartimento ha risposto che queste richieste e i conseguenti aborti non possono essere rifiutati e che non è possibile negare ad una donna l'aborto fino alla diciottesima settimana di gestazione, anche se il sesso del nascituro è la base della richiesta.

Fin qui la notizia.

La prima riflessione è che questa statuizione dimostra che "la salute della donna" (o più semplicemente: la salute) è uno schermo che nasconde la pura e semplice volontà dell'adulto, sganciata da ogni limite: con il paradosso che è il Dipartimento della Salute a statuire che, nel permettere l'aborto volontario, la salute non c'entra nulla ...

Ci si può chiedere, poi, in cosa differisca l'aborto delle bambine deciso ed attuato per il solo fatto che si tratta appunto di femmine dalla soppressione in Cina delle neonate in conseguenza della famigerata legge che rende obbligatorio il figlio unico: l'uccisione è semplicemente avvenuta prima ... gli strumenti tecnologici avanzati del Nord Europa - l'amniocentesi - portano allo stesso orrore ... e chissà se qualche donna sente su di sé l'obbligo sociale di fare pochi figli, magari non più di uno ...

Un'ultima domanda: ma una cosa del genere sarebbe possibile in Italia?
Assolutamente si: in Italia la donna deve solo "accusare" i motivi di salute che la inducono ad abortire; nessuno ha il diritto di sindacare questi motivi.
Quando si stabilisce che un uomo qualche volta può essere ucciso, in realtà si permette di ucciderlo in ogni caso: non esistono leggi sull'aborto migliori o peggiori, ma solo leggi sull'aborto che devono essere abolite.
Giacomo Rocchi

domenica 11 gennaio 2009

Non nel mio nome: riflessioni su Cassazione 21748/07

E’ circostanza nota a tutti che la Corte d’Appello di Milano, dietro “mandato” della Suprema Corte di Cassazione – sent. 21748/07, presidente dott.ssa Maria Gabriella Luccioli, con proprio decreto, volutamente dichiarato immediatamente esecutivo, ha autorizzato il tutore di Eluana Englaro a sospenderle l’alimentazione. (Non uso l’aggettivo forzata che di solito viene posto a fianco del detto termine, poiché ritengo che non vi sia nessuna forzatura nel dare cibo e acqua a qualsivoglia soggetto, posto che lo stimolo della fame e della sete sorge naturale in ogni essere umano).

Singolare, come dicevo, l’aver previsto l’immediata esecutorietà ad un provvedimento di tal fatta, quando in via ordinaria (art. 741 comma 1° c.p.c.), la regola prevede che il provvedimento divenga esecutivo quando siano spirati i termini per eventuali ricorsi alla giudice superiore.

Singolare, appunto, quasi a voler cristallizzare con la morte della sventurata ragazza, i principi giuridicamente eversivi (qui, a mio giudizio, si esce anche dal canone della creatività), esposti nella citata sentenza delle Suprema Corte di Cassazione. Provvedimento che, in nome del principio dell’assoluta autonomia dell’essere umano, figlio delle teorie superominiche del novecento e dell’utilitarismo consumistico, mette nel nulla il principio di diritto naturale di intangibilità della vita umana, negando, con abili sofismi, che l’ordinamento costituzionale tuteli la vita quale valore superiore anche alla libertà personale.

Ciò che più mi sorprende, tra le tante obiezioni che si possono muovere alla citata sentenza, che autorizza in concreto la morte di una donna per fame e sete, è il fatto che se esiste un diritto assoluto all’autodeterminazione, fino a legittimare, ovvero ritenere giuridicamente tutelabile una volontà suicidaria, deve, per forza di cose esistere anche il dovere, da imporre a medici o a dei “boia di stato”, appositamente reclutati, di rendere attuale il diritto all’autodeterminazione per quelle persone che non sono in grado di farlo in via autonoma.

Nello spirito del nostro ordinamento giuridico, che affonda le sue radici in 2000 anni di cristianesimo, l’offesa alla vita umana, anche se proveniente dallo stesso titolare del diritto, è stata sempre deprecata, tanto da prevedere sanzioni penali per tutti coloro che aiutano il suicida e, a contrario, è previsto che ci si attivi sempre per salvare la vita di un uomo, anche di quello che, tentando di suicidarsi non vi sia riuscito, pena l’omissione di soccorso. Ora, però, visto che la Suprema Corte ravvisa nella irreversibilità del quadro clinico e nella volontà del paziente di morire le due condizioni che legittimano una condotta omissiva volta a permettere la morte, c’è da domandarsi se il medico che giunga a soccorre un soggetto che ha tentato il suicidio, accertato un quadro clinico disperato, sia ancora tenuto a tentare di rianimare il paziente o debba astenersi davanti a quella che è la massima espressione dell’autonomismo umano, ovvero l’atto suicidario.

La sentenza in discorso, introducendo di fatto nell’ordinamento la possibilità per l’incapace, di essere lasciato morire, purché abbia in precedenza, manifestato in qualsivoglia maniera tale “desiderio”, porta la legge ordinaria e costituzionale oltre i suoi confini. Il famoso articolo 32 comma 2° della costituzione che darebbe copertura al ragionamento della Corte Suprema, vera ispiratrice e mandante necessario, dell’atto esecutivo della Corte d’Appello di Milano, venne per vero voluto, dai suoi presentatori on.le Aldo Moro e Paolo Rossi, per tutt’altre ragioni, ovvero per tutelare il cittadino nei confronti dello Stato contro pratiche lesive delle dignità umana: si legge nel resoconto sommario della seduta di martedì 28 gennaio 1947 “…. Si tratta prevalentemente del problema della sterilizzazione e di altri problemi accessori”. Non certo per sancire il diritto ad una dolce morte, così come vuole farci intendere la Suprema Corte.

A giudizio di chi scrive, pertanto, si può rilevare come la S.C. anziché essere fedele interprete della legge, abbia voluto sostituirsi al legislatore e per via “interpretativa” abbia introdotto di fatto l’istituto del testamento biologico. Istituto assente nel nostro ordinamento, tanto è vero che nella scorsa legislatura sono stati molti i disegni di legge presentati per rendere lecito il c.d. testamento biologico.

A conclusione di questa riflessione, mi sovvengono le parole di Gesù nel vangelo di Matteo al capitolo 25, rivolte a quelli che stanno alla sua sinistra: “ho avuto fame e non mi avete dato da magiare, ho avuto sete e non mi avete dato da bere……” Se questo sarà il metro di giudizio, è bene che la nostra società rifletta e per quel che mi è possibile voglio affermare, anche pubblicamente, che i giudizi pronunciati da quei tribunali in nome del popolo italiano, non sono pronunciati in nome mio.


Pietro Brovarone