Dove sta il male? Il diritto al figlio
Conseguente a questa impostazione è un ulteriore
atteggiamento: l'individuazione delle conseguenze negative – il
"male" – nella fecondazione eterologa
piuttosto che nella fecondazione in vitro
nel suo complesso. Si tratta di un orientamento evidente e (a mio parere)
parzialmente inconsapevole.
Sono utili due esempi, emersi proprio in questo periodo in
cui è stata commentata la sentenza della Corte Costituzionale, dopo il deposito
della motivazione.
Il primo riguarda l'esistenza di un "diritto al
figlio". Anche mons. Crepaldi, nel suo intervento del 17/7/2014, definisce
una "novità" l’enunciazione, nella sentenza della Consulta, di un
“diritto al figlio”, osservando giustamente che "il “diritto al figlio”, rompe con la visione della persona
umana come avente in sé una propria dignità. Si possono vantare diritti sulle
cose, non sulle persone. La persona è un fine in sé e non può cadere sotto la
proprietà di nessuno, come capiterebbe invece se il “diritto al figlio”
diventasse patrimonio culturale condiviso e fosse addirittura completato da una
legislazione conseguente. Principi simili erano finora stati teorizzati solo da
regimi totalitari. Con il principio del “diritto al figlio” l’uomo si sentirà
autorizzato a completare la manipolazione della vita e dell’essere umano già in
fase avanzata di realizzazione".
In effetti, la Corte Costituzionale, nella sentenza n. 162, ha
ribadito che "la scelta della coppia di diventare genitori e di formare
una famiglia che abbia dei figli costituisce espressione della fondamentale e
generale libertà di autodeterminarsi", osservando che "la
determinazione di avere o meno un figlio, anche per la coppia assolutamente
sterile o infertile, concernendo la sfera più intime e tangibile della persona
umana, non può che essere incoercibile, qualora non vulneri altri valori
costituzionali".
Non è un caso, però,
che subito dopo la Consulta ricordi di avere in precedenza già sottolineato
"come la legge n. 40 del 2004 sia appunto preordinata alla tutela delle
esigenze della procreazione"; in un passo successivo riprende il tema del
"dichiarato scopo della legge n. 40 del 2004 di favorire la soluzione dei
problemi riproduttivi derivanti dalla sterilità o dalla infertilità umana",
rilevando che "la preclusione assoluta di accesso alla PMA di tipo
eterologo introduce un evidente elemento di irrazionalità, perché la negazione
assoluta del diritto a realizzare la genitorialità, alla formazione di una
famiglia con figli (…) è stabilita in danno delle coppie affette dalle
patologie più gravi, in contrasto con la ratio
legis".
Traduciamo: la Corte Costituzionale non enuncia per la prima volta l'esistenza di un
"diritto al figlio"; piuttosto prende atto che la legge 40 già riconosce il diritto al figlio ma lo
nega irragionevolmente ad una categoria di coppie, fra l'altro quelle più
sfortunate.
Ma è vero che è stata la legge 40 – cioè quella approvata su
spinta del mondo cattolico e prolife
ufficiale nel 2004 e difesa a spada tratta nel referendum del 2005 - a
riconoscere alle coppie adulte (si aggiunga: nemmeno coniugate) un diritto
soggettivo ad avere un figlio mediante il ricorso alle tecniche di fecondazione
artificiale? La risposta è: assolutamente sì!
Non solo l'articolo 1, comma 1 della legge fa riferimento a
"diritti di tutti i soggetti coinvolti", e quindi anche degli adulti,
ma il fatto che, fin da subito, i giudici civili (i giudici dei diritti) abbiano
provveduto sulle domande avanzate dalle coppie che aspiravano a ricorrere alla
fecondazione artificiale dimostra che, appunto, esiste un diritto soggettivo
pieno, che possiamo così enunciare: la coppia eterosessuale di maggiorenni, se
non riesce a generare naturalmente un figlio (condizione in parte
autocertificata) ha il diritto soggettivo di accedere alle tecniche di
fecondazione artificiale, per buona parte a spese dello Stato, e di reiterare i
tentativi (i "cicli") per un numero indeterminato di volte.
Se questa è l'enunciazione giuridica del diritto, una disposizione nascosta nell'art. 6 della
legge, che tratta delle informazioni che la clinica deve fornire alla coppia
richiedente prima di procedere con le tecniche, dimostra in concreto la sua esistenza.
Tra le varie informazioni, infatti, si prevede che "alla coppia deve
essere prospettata la possibilità di ricorrere a procedure di adozione o di
affidamento come alternativa alla procreazione medicalmente assistita".
Ecco che sbuca l'alternativa: quella tradizionale
dell'accoglienza dei bambini abbandonati o provenienti da famiglie in
difficoltà, atto generoso che, talvolta, permetteva anche alle coppie infertili
di esprimere appieno l'amore e il desiderio di genitorialità.
Questa alternativa deve essere solo enunciata: ma i richiedenti potranno dire un netto "no!",
rivendicando implicitamente il loro diritto ad un figlio proprio. Nessuna "pausa di riflessione" la legge impone,
nessun invito ulteriore a ripensarci la clinica deve avanzare: il diritto
soggettivo è pieno e indiscutibile.
L'accostamento tra adozione (o affidamento) e tecniche di
fecondazione artificiale fa intravedere proprio il quadro che mons. Crepaldi
tratteggia: ma, appunto, questo diritto soggettivo venne riconosciuto già nel
2004 e non lo ha affatto inventato la Corte Costituzionale con la sentenza
sull'eterologa!
Non solo: questo diritto fu riconosciuto a coppie di
soggetti che spesso non hanno nemmeno i requisiti
che la legge sull'adozione prescrive: possono non essere sposati, possono stare
insieme anche solo da un mese, nessuna valutazione del loro equilibrio e della
loro situazione familiare viene svolta (e sappiamo come, al contrario, queste
indagini siano rigorose per l'adozione dei minori abbandonati!).
Dove sta il male? L'eugenetica.
Quando il ministro Lorenzin ancora pensava di emanare un
decreto legge, aveva posto il problema della scelta delle caratteristiche
fisiche dei donatori di gameti e dei bambini generati con la fecondazione
eterologa: la coppia richiedente potrebbe scegliere il colore della pelle del
bambino? Ovviamente – ricordiamoci: stiamo parlando di soldi! – le cliniche e
gli "esperti" sono insorti: è preferibile una
"compatibilità" a tutela dello stesso bambino (sottinteso: se le
coppie italiane capiscono che rischiano di avere un figlio proprio con la pelle di colore diverso,
continuano ad andare a Barcellona e il nostro guadagno svanisce …).
Naturalmente, per gli interessati, "non si tratta di
eugenetica", ma di un problema diverso: "tra il pool di donatori
disponibili, i medici sceglieranno quelli con caratteristiche somatiche e di
gruppo sanguigno il più compatibili possibili con quelle della coppia
ricevente. Questo è l'orientamento diffusamente accettato a livello
internazionale, inoltre faciliterà l’accettazione del nascituro da parte dei
genitori e del contesto sociale in cui crescerà e vivrà, permettendo al bambino
uno sviluppo psico-emotivo sereno ed equilibrato”. Inoltre, "in un
contesto di globalizzazione come quello attuale in Italia – rileva Elisabetta
Coccia, presidente di Cecos Italia, l’associazione che raggruppa i maggiori
Centri italiani privati e convenzionati di fecondazione assistita – è
giusto garantire tale principio della compatibilità anche alle coppie
appartenenti ad altre etnie e residenti nel nostro paese": quindi,
garantiamo ai cinesi che vivono in Italia bambini di etnia cinese e così via!
L'ipocrisia di certi soggetti davvero non ha limiti.
Tuttavia sarebbe del tutto errato ritenere che il problema della eugenetica sia
legato solo alla fecondazione eterologa: al contrario, esso è insito nelle
tecniche di fecondazione in vitro;
basta ricordare che esse sono state sviluppate in ambito zootecnico per il
miglioramento della razza degli animali!
Ricordiamo quanto esclamò Jerome Lejeune sulla questione:
"vorrei vedere in faccia quel fecondatore disposto a consegnare un bambino
handicappato!". La "produzione" dell'uomo su domanda (e a
pagamento) presuppone un "controllo di qualità" del prodotto e quindi
richiede la selezione dello stesso e l'eliminazione dei prodotti difettosi.
Non occorre davvero soffermarci oltre su questa questione:
non è affatto un caso che – già prima della sentenza della Corte Costituzionale
sull'eterologa – la precedente pronuncia sul numero di embrioni e le pronunce
dei giudici di merito e della Corte Europea dei Diritti dell'Uomo avessero
reintrodotto quel meccanismo di produzione del numero massimo di embrioni e di
loro selezione, mediante la diagnosi genetica preimpianto, finalizzato esplicitamente all'eliminazione degli
embrioni "imperfetti".
Eppure Francesco Agnoli, pochi giorni fa, ha sostenuto che
"l'eugenetica è nel cuore stesso dell'eterologa". Perché? "Per
almeno due motivi. Il primo: l’eterologa è figlia del “trasferimento della
procreazione dalla casa al laboratorio” (Leon Kass) e della trasformazione
del figlio in prodotto, manifattura La seconda: l’eterologa è figlia del
mercato (quello che Marzano, Rodotà, Tesauro, centri privati di Fiv,
Associazione Coscioni … non vogliono assolutamente normare, non scorgendo alcuna
differenza, forse, tra mercato di cose e mercato di persone). Se il figlio diventa un prodotto, un oggetto
“fabbricabile”, inevitabilmente questo genererà il desiderio di
figli “perfetti”, su misura, su ordinazione, secondo criteri prestabiliti da
chi è disposto a pagare; la conseguenza inevitabile sarà il crearsi, di fronte
a questa domanda, di una offerta sempre più artificiosa e rinnovata. In un
ciclo perverso in cui sogni eugenetici dei potenziali genitori, anche fertili,
genereranno risposte sempre più fantasiose; nello stesso tempo, offerte del
mercato sempre più intriganti, genereranno negli acquirenti aspirazioni ancora
più disumane. Il figlio, insomma, come un cellulare: c’è sempre desiderio di un
nuovo modello, che sostituisca l’antico, e necessità di un nuovo modello, che
ingrassi e rilanci il mercato. Che l’eterologa, tanto più senza alcuna norma
che la regoli almeno in parte, generi eugenetica e mercato della vita è
dimostrabile in mille modi."
Ma, appunto, i due motivi indicati da Francesco Agnoli
riguardano non l'eterologa, ma la fecondazione in vitro nel suo complesso: quella che la legge 40 ha affermato
essere un diritto degli adulti.
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