Verrebbe da dire: per fortuna che la telenovela è durata poco! Visto che il quadro che è emerso a partire
da Ferragosto è chiaro e limpido, forse potremo davvero iniziare a pensare a cosa fare …
Cerchiamo, però, di trarre qualche considerazione da questo
dibattito che, per la maggior parte, si è svolto all'interno del mondo
cattolico e prolife, come si è visto senza alcuna efficacia reale.
Perché questa immediata e reiterata richiesta di una legge,
accompagnata alla pretesa di sospendere gli effetti della sentenza della Corte
Costituzionale? Perché questo ritorno alle discussioni sull'Evangelium Vitae?
Reazioni del genere non vennero né in occasione della prima
sentenza della Corte Costituzionale (la n. 151 del 2009, che eliminò il numero
massimo di embrioni producibili per ogni ciclo, che la legge fissava in tre),
né quando i giudici ordinari stabilirono ripetutamente che la diagnosi genetica
preimpianto sugli embrioni prodotti era consentita dalla legge, né, ancora,
quando l'allora Ministro della Salute Livia Turco modificò le Linee Guida consentendo
anche la "diagnosi non osservazionale" sugli embrioni prodotti (cioè
la diagnosi genetica preimpianto) ed equiparando alla sterilità di coppia
l'essere l'uomo affetto da HIV (introducendo il principio che una coppia è
sterile, e può quindi fare ricorso alla fecondazione artificiale, non solo se
lo è oggettivamente, ma anche se uno
dei componenti può trasmettere una malattia al partner o al figlio).
Erano tutti casi in cui il legislatore avrebbe potuto
intervenire autorevolmente, per chiarire con un'interpretazione autentica la
scelta manifestata all'epoca dell'approvazione della legge 40: eppure nessun
tentativo venne fatto.
Il fatto è che la reazione veemente all'eliminazione del
divieto di fecondazione eterologa è perfettamente coerente – si potrebbe dire:
è un riflesso condizionato – alla scelta fatta per ottenere l'approvazione
della legge 40: autorizzare la fecondazione in
vitro omologa e vietare quella eterologa.
Tale scelta – come era stato ripetutamente sottolineato da
coloro che successivamente fondarono il Comitato Verità e Vita – comportava
consentire espressamente (meglio: riconoscere il diritto soggettivo ai richiedenti)
e finanziare con i soldi dello Stato una pratica che determinava la creazione
per la morte certa di innumerevoli embrioni (9 su dieci, 15 su venti: le
statistiche sono impressionanti). Si inventò anche una giustificazione postuma: gli embrioni, una volta
prodotti artificialmente, sono affidati alla natura e quindi essi muoiono naturalmente
e non per mano dell'uomo, equiparando la loro strage al fenomeno degli aborti
spontanei.
In sostanza: si preferì sorvolare sulla palese violazione
del diritto alla vita degli embrioni prodotti derivante dalla fecondazione in vitro nonché sulla altrettanto palese
violazione della loro dignità – che l'essere prodotti fa venire inevitabilmente meno – per soffermarsi su altre priorità, che sono quelle che ora
riemergono. In sintesi quelle priorità potevano riassumersi – e furono
riassunte durante la campagna per il referendum – nella difesa della famiglia e
del diritto del figlio ad una famiglia.
Il diritto alla vita dell'embrione venne sancito rispetto a
pratiche particolari sugli embrioni
prodotti (sperimentazione, congelamento – che venne peraltro esplicitamente
consentito – soppressione volontaria) ma rinunciando alla sua tutela a monte (divieto di produrre uomini
artificialmente destinati con certezza a morire nella quasi totalità).
Sia ben chiaro: la linea ufficiale è ancora questa:
l'iniziativa Uno di Noi mira a tutelare gli embrioni già prodotti e sopravvissuti e quindi presuppone la liceità della
fecondazione in vitro e, quindi, la
morte "spontanea" della maggioranza di essi; ancora una volta, viene
riproposta implicitamente la distinzione tra soppressione volontaria
dell'embrione e sua morte "naturale".
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