lunedì 28 luglio 2014

Il post eterologa

Elisabetta Frezza interviene nel dibattito sorto nel mondo cattolico e in quello pro life dopo la sentenza della Corte Costituzionale che ha cancellato il divieto di fecondazione eterologa presente nella legge 40 del 2004. 
Senza dubbio, cadendo quel "paletto" ha fatto rumore: ha, infatti, colpito al cuore la scelta che lo stesso mondo cattolico e prolife ufficiale fece per giungere all'approvazione della legge, vale a dire permettere la fecondazione in vitro omologa e vietare solo quella eterologa. 
Se quel "paletto" era importante e simbolico, conviene fermarsi a riflettere un attimo, senza reagire meccanicamente in conseguenza della "sindrome del paletto" che pare piuttosto diffusa. 
Aspettiamo altri contributi. 

Giacomo Rocchi


1. LA REAZIONE DEL MONDO PRO LIFE ALLA SENTENZA DELLA CORTE COSTITUZIONALE
Nel leggere i vari commenti alla sentenza della Corte Costituzionale 162/2014 - che ha legalizzato la fecondazione eterologa abbattendo il divieto originariamente previsto dalla legge 40 - mi sono sorte spontanee alcune riflessioni.
Si fa un gran discutere, all'interno del fronte pro life, sulla opportunità di un intervento legislativo orientato a "limitare i danni", immani, derivabili dalla situazione normativa venutasi a creare a seguito dell'ultima declaratoria parziale di incostituzionalità della legge sulla procreazione medicalmente assistita. La più parte dei commentatori giudica favorevolmente le proposte in tal senso e si spinge sino a ipotizzarne il tenore. Pur manifestando, taluno, qualche scrupolo di opportunità. Soltanto Tommaso Scandroglio si dichiara sulla Bussola recisamente contrario a iniziative siffatte e motiva con dovizia di argomentazioni la propria posizione "oltranzista".
Premetto che nella sostanza concordo convintamente con lui, ritenendo che qualsiasi tentativo di temperamento normativo della pratica ora liberalizzata sia, in realtà, foriero di danni ben maggiori.

2. IL RICHIAMO AL PARAGRAFO 73 DELL'EVANGELIUM VITAE
Come sempre, l'appiglio magisteriale su cui si pretende di fare leva per giustificare questo genere di interventi lenitivi è quel paragrafo 73 dell'Evangelium Vitae che è diventato inopinatamente la bandiera di ogni impresa politica compromissoria in tema di principii non negoziabili, e - a tal fine - oggetto di una strumentale inversione logica del rapporto da regola a eccezione nell'ambito del contesto "normativo" in cui si inquadra.
Il dettato del 73 è formulato quale espressa riserva rispetto al principio generale stabilito nella enciclica: il principio, cioè, per cui i temi legati alla vita umana devono per loro natura essere sottratti alla negoziazione politica perché non suscettibili di subire compromessi. Tutti i paragrafi antecedenti e successivi del documento, infatti, sono improntati sul criterio della inderogabilità della legge morale naturale e della legge divina fondamentale. 
La stessa istruzione della Congregazione per la Dottrina della Fede, di alcuni anni successiva all'enciclica, ribadisce questo concetto cardine e contribuisce a spiegare il portato della riserva ex 73 E.V. con una sorta di interpretazione autentica: "la coscienza cristiana ben formata non permette a nessuno di favorire con il proprio voto l’attuazione di un programma politico o di una singola legge in cui i contenuti fondamentali della fede e della morale siano sovvertiti dalla presentazione di proposte alternative o contrarie a tali contenuti".
Ponendosi in evidente contraddizione con il quadro complessivo di riferimento, pare logico che la disposizione del 73 sia stata escogitata per casi del tutto particolari: che la sua applicazione vada quindi calibrata sulla singola fattispecie e implichi un vaglio circostanziato sulle caratteristiche del caso concreto, in nessun modo potendo comunque, da essa, discendere un principio guida.
Agli antipodi dell'interpretazione (sistematica) restrittiva che qui si sostiene, si pone quella di chi - come fa padre Giorgio Carbone sempre sulla Bussola - pretende di leggere nel 73 cit. nientemeno che il "principio etico generale" consistente nel dovere di agire per contenere i danni a terzi indifesi (disattendendo il quale dovere ci si renderebbe colpevoli per omissione).
Per concludere sul punto, nell'opinione di chi scrive il 73 E.V., usato e abusato quale fondamento legittimante la sempreverde teoria del male minore nelle sue contingenti articolazioni (rivelatesi peraltro tutte fallimentari all'atto pratico) va ricondotto nell'alveo che gli compete: quello, circoscritto, di eccezione alla regola generale e astratta, armonizzata quest'ultima con la Legge Divina e con la Tradizione della Chiesa.

3. LA "SINDROME DEL PALETTO"
Ciò premesso, e per tornare alla questione iniziale, è necessario allargare il più possibile la visuale per cogliere della situazione attuale, oltre agli aspetti "tecnici", l'enormità umana.
Il rischio sempre in agguato in casa pro life, infatti, è quello di perdere di vista la realtà con tutto il suo carico di vite distrutte, per lasciarsi troppo facilmente imbrigliare in un meccanismo speculativo ormai semi-automatico: un vero e proprio riflesso condizionato ad alzare le mani e disporsi sulla difensiva ogni volta che la fervida cultura della morte avanza di un passo. In attesa di battere in ritirata. Un fenomeno, questo, tanto sociologicamente interessante, quanto culturalmente devastante.
Ci si chiede come sia possibile che, il giorno dopo l'abbattimento dell'ennesimo paletto ad opera del giudice costituzionale (alacre legislatore di sostegno), tutti si affannino forsennatamente a fabbricare nuovi paletti e a pensare dove piantarli.
La sindrome del paletto, evidentemente molto contagiosa, colpisce con sempre maggiore anticipo. Nemmeno il tempo di accusare il colpo dell'avversario, che il bravo cattolico si lancia in ardite fughe in avanti, convinto di realizzare un astuto programma di prevenzione al peggio.
È così che, di fronte al supermarket legalizzato di creature innocenti, di fronte a bambini prodotti, selezionati, congelati, scambiati, scartati, ci si mette a discutere senza colpo ferire di etichette sulle provette di sperma (divieto di anonimato), di tetto massimo di cessioni di gameti per ogni donatore (5? 10? Una via di mezzo?), di retribuibilità o meno del materiale genetico (obbligo di gratuità) e di altre - si fa per dire - "amenità".

4. COME AGIRE PER COMBATTERE IL MALE?
Ecco. Al di là anche del doveroso approfondimento delle ragioni morali per le quali non si può mai collaborare al male, nemmeno quando si intende perseguire il bene (e Scandroglio dipana la questione e la spiega con chiarezza), la dissonanza tra la strategia del pompiere - che si prodiga a sopire qualche tizzone - e la enormità della posta in gioco emerge, anzitutto, in via intuitiva.

L'immettersi, con subitaneo spirito di adattamento, nella logica perversa di un apparato normativo intrinsecamente iniquo non può non generare un danno culturale enorme. Perché dimostra senza tema di smentita che si è disposti ad entrare nell'ingranaggio della produzione di esseri umani in laboratorio e, quindi, della loro reificazione e mercificazione. Si favorisce così l'assuefazione delle coscienze, già abbondantemente suggestionate, a una mostruosità conclamata. 
Vero è che, per salvare la faccia, e sempre in omaggio al 73, si continua a emettere, sulla carta, qualche rantolo contro la fecondazione tout court, anche omologa: ma, a fronte dell'attivismo interventista messo in campo in contemporanea, esso non può che ridursi a mero flatus vocis.
Non va trascurato poi che, con l'eterologa, si è oramai giunti ad una fase assai avanzata del viaggio prometeico dell'uomo onnipotente. E quindi: contrattando limiti convenzionali a quest'ultima specie di produzione umana, si accetta, per tacita acquiescenza, il genere cui essa appartiene: si consacra definitivamente la fabbricazione di esseri umani in laboratorio. La discussione si sposta sui soli epigoni di una pratica che è in toto antiumana.

5. LA NECESSITA' DI DENUNCIARE LA LEGGE CHE PERMETTE LA FECONDAZIONE ARTIFICIALE
Il fatto è proprio questo. 
La progressiva liberalizzazione della fecondazione artificiale è la logica, naturale, prevista e prevedibile conseguenza della sua legalizzazione. Il vizio sta alla radice, è insito nella legge 40. È solo combattendo quello, col tenere vigili le coscienze anche approfittando dello scenario sconvolgente che ci si para ora davanti, che si può avere qualche speranza nel tempo di risalire la corrente.

Ora, è comprensibile che chi questa legge ha prima concepito e poi partorito stenti a riconoscerne la mostruosità. Già più difficile capire come possa definirla a tutt'oggi un capolavoro. Ma tant'è.
Resta invece inspiegabile come chi non ne abbia la paternità non veda come anche l'ultima pronuncia della Corte Costituzionale (un saggio di analfabetismo giuridico di ritorno, tutto volto a recepire il conformismo popolare) non costituisca affatto un cambio di rotta, ma sia conforme e consequenziale alla ratio della normativa già in vigore e al suo spirito progressivo.
Certo, con l'eterologa si apre la strada alla perdita totale della identità, delle radici, della memoria di queste schiere di nati dal nulla. Ci si trova di fronte, d'improvviso, ad aberrazioni inedite quanto eclatanti: a proliferazioni di figure lato sensu genitoriali, a scambi intergenerazionali, a combinazioni incestuose.

Dinanzi a questo passaggio ulteriore nel senso dell'orrore legalizzato cosa è giusto che facciano i pro life?
Che si industrino a fabbricare ridicoli paletti, servendo così alla gente un efficace digestivo per inghiottire i rospi più grossi, o che - al contrario - gridino alla follia, ne spieghino la genesi, se ne chiamino fuori e inducano a fare altrettanto?
La nuova modalità di produrre la vita, e manipolarla, negli alambicchi di chi si atteggia a medico ma pratica di fatto l'antico mestiere dello stregone, e poi di comprarla e venderla al supermercato, merita solo ed esclusivamente di essere denunciata e combattuta con tutte le forze a disposizione.
Anche e soprattutto se coperta dal crisma della legalità.
Questo il compito del difensore della vita.

Sulla figura del pro life mimetico, colpito dal tarlo vorace del positivismo, grava la responsabilità di confondere le acque e contribuire ad abbassare le difese naturali di una società già deprivata dei retti criteri di giudizio. Magari con l'aggravante di presentarsi sotto l'egida, sempre rassicurante, del cattolicesimo: un cattolicesimo divenuto nel frattempo - per analogo fenomeno mimetico – sempre meno cattolico e sempre più terribilmente mondano.


Elisabetta Frezza

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