giovedì 30 agosto 2012

Legge 40. In risposta agli articoli sui giornali del 29 agosto 2012


E’ tornata oggi d’attualità sui giornali la legge 40 sulla fecondazione assistita: se sia giusto o no vietare la
selezione pre-impianto.

E’ un falso dilemma perché il male viene prima della legge 40: non è lecito che la vita di un figlio abbia inizio nella solitudine di una provetta di laboratorio anziché dentro al grembo della sua mamma.

L’unico modo lecito di procreare è che il concepimento avvenga dopo un atto unitivo sponsale, così come il  Padre -creatore della vita- nella sua somma sapienza, ha stabilito.

Con la fecondazione extracorporea la donna non è messa incinta dal proprio marito (che è l’unico modo lecito), ma viene messa incinta con un atto medico.

Allora, ci si domanda: “Che cosa fare davanti al dramma della coppia infertile o della coppia portatrice di malattia genetica? Fin dove la scienza medica può arrivare?” Ecco, la scienza medica ha il dovere di curare – per quanto può fare – le cause dell’infertilità, ma poi si deve fermare … non può sostituirsi all’atto unitivo
degli sposi: questo è gravemente illecito!!! E non si parli di ‘diritto di avere un figlio’ perché non esiste il diritto di avere un figlio (è un desiderio… ma il desiderio non è un diritto); esiste invece il diritto del figlio (questo sì!) di venire concepito nell’amore dei genitori, secondo il disegno di Dio, così come ha avuto origine
la vita di noi tutti: la ‘mia’ vita, la vita dei ‘miei’ genitori, dei ‘miei’ figli…..

E soprattutto non si dica che la legge 40 è una legge cattolica e che è cattolico chi la difende, perché la legge 40 è gravemente ingiusta in quanto autorizza un modo di procreare moralmente illecito. E questo lo afferma il Magistero della Chiesa.

Il solo merito (se così si può dire) è quello di essere forse meno peggiore delle leggi in vigore in altre nazioni.
Tutto qui.

Bologna, 29 agosto 2012

Paola Pareschi Baravelli
Casalecchio di Reno (BO)


mercoledì 29 agosto 2012

Menzogne e avvoltoi

La Costituzione della Repubblica Dominicana statuisce, a seguito di una riforma approvata nel 2009, che "il diritto alla vita è inviolabile dal momento del concepimento fino alla morte naturale"; vieta, quindi, l'aborto ed abolisce la pena di morte.
Una proclamazione evidentemente intollerabile per il mondo occidentale "evoluto", quello per cui l'aborto volontario libero, gratuito e assistito dovrebbe tutelare il diritto alla salute della donna, la sua "salute riproduttiva" e per il quale il concepito non ha nessun diritto, semplicemente "non è".
I tentativi di scardinare questa Costituzione (che, orrore! proclama anche che il matrimonio si fonda sull'unione tra un uomo e una donna ... quale scandalo!) sono quindi assolutamente prevedibili. Come le potenti società abortiste hanno sempre fatto, bisogna creare il "caso", quanto più pietoso possibile, per far vedere la malvagità di quanto i costituenti prolife hanno stabilito.
Cosa c'è di meglio, allora, di una ragazzina di sedici anni incinta e affetta da leucemia? E quale conclusione più eloquente della sua triste vicenda è quella che circola in internet (noi l'abbiamo trovata su Giornalettismo): "La ragazzina che non poteva abortire è morta. 21/08/2012 - Finisce in tragedia la storia di Esperanza, malata di leucemia e "condannata" dalle leggi della Repubblica Dominicana". "Leggo" scrive, lo stesso giorno: "La legge della Repubblica Dominicana l'ha fatta morire, perché Rosa Hernandez non ha potuto curarsi come avrebbe dovuto, essendo l'aborto tassativamente vietato". TGCOM 24, sempre il 21 agosto, riferisce: "È morta così Esperanza, la ragazza domenicana di 16 anni incinta e malata di leucemia: i medici hanno deciso di non sottoporla al ciclo di chemioterapia che probabilmente la avrebbe salvata dal tumore causando però la morte del bimbo che aveva in grembo".
Ecco qui: i cattivi legislatori reazionari e cattolici, che preferiscono tutelare la vita degli embrioni e si dimenticano di quella delle povere ragazze.

La fonte delle notizie (almeno quella che abbiamo trovato in rete) è la CNN (la notizia è rimbalzata su numerose agenzie statunitensi), ma dagli stessi servizi dell'emittente (del 25 e 26 luglio e del 17 agosto) e da altre notizie pubblicate solo nella Repubblica Dominicana si scopre che la vicenda è ben diversa.

Il 25 luglio scorso la CNN riferiva che "al Semma Hospital di Santo Domingo una ragazza di 16 anni sta morendo di leucemia acuta. I medici affermano che la ragazza necessita di un trattamento chemioterapico aggressivo. Ma c'è un problema: l'adolescente è alla nona settimana di gravidanza e il trattamento molto probabilmente porterebbe all'interruzione della gravidanza, una violazione della legge dominicana antiabortista". Come si può vedere, l'esecuzione di un aborto volontario non è mai stata presa in considerazione dai medici che, piuttosto, erano consapevoli dell'effetto che la chemioterapia intensiva avrebbe potuto avere sul feto (in effetti, la povera ragazza ebbe un aborto spontaneo poche ore prima di morire). Eppure il servizio insisteva sull'impossibilità di effettuare l'aborto: la madre si lamentava che i medici non eseguissero l'aborto e (ovviamente?) gli oppositori rimettevano in discussione la normativa. Tale Victor Terrero sosteneva che "gli aborti clandestini stanno mettendo le vite di molte donne a rischio" e aggiungeva che la Costituzione avrebbe dovuto essere subito modificata. Cosa c'entri l'aborto clandestino in questo caso lo sa solo lui.
Quello che sorprende è il modo del tutto generico con cui viene presentato il presunto ritardo nelle cure e la facilità con cui si giunge alla conclusione: ritardo delle cure - morte della ragazza.
Ma, dal servizio del 26 luglio, si scopre che la chemioterapia era già iniziata la sera del 24 luglio (nonostante il TGCOM 24 sostenga che il trattamento non sia stato effettuato): quindi il primo servizio della CNN era intervenuto a sollevare polemiche quando il problema era già stato affrontato e risolto.
Nel terzo servizio del 17 agosto (quello che riferisce della morte della giovane), si sostiene che  il trattamento di chemioterapia era iniziato "circa" 20 giorni dopo il ricovero in ospedale; ma senza tenere conto che, come dichiarato dal Dr. Amarilis Herrera, presidente of the Dominican Medical College, già il 18 luglio vi era stato un incontro all'ospedale con i sanitari per valutare il caso e lavorare insieme per trovare una soluzione e che campioni di midollo osseo erano stati inviati negli Stati Uniti al fine di individuare il migliore trattamento terapeutico.

Insomma: nessun ritardo accertato e, soprattutto, la assoluta mancanza di prove che tale presunto ritardo abbia comportato la morte della giovane. Per di più, il collegamento tra la disposizione costituzionale e tale (presunto) ritardo è del tutto teorico. L'autore della riforma costituzionale, Pelegrin Castillo, l'aveva fin da subito osservato: "E' un dibattito artificioso; abbiamo detto chiaramente che in questo caso i medici sono autorizzati dalla Costituzione a sottoporre a trattamento il paziente: essi hanno il compito di proteggere entrambe le vite"; così come, fin dal 24 luglio, il responsabile della Pastorale Giovanile della diocesi aveva diffuso un comunicato in cui chiariva che dal punto di vista morale sussiste "il principio del doppio effetto", che è "un'azione per ottenere un bene, ma che può portare a qualcosa di negativo. In questo caso il bene è curare la salute della madre adolescente, mentre il male possibile potrebbe essere la morte del feto. La cosa importante è cercare di salvare la vita di entrambi, naturalmente prestando attenzione prima a colei che è malata, la donna incinta (...). Nel caso che, assistendo la madre e usando la dovuta cura e diligenza per salvare la vita del bambino, quest'ultimo muoia, non sarà stata posta in essere nessuna azione punibile, né moralmente, né legalmente"

Questa diligenza nel curare entrambe le creature era stata posta in essere dai medici, fin dall'invio dei campioni negli Stati Uniti. L'ospedale aggiornava pubblicamente le notizie sulla condizioni di salute, (con comunicati del tutto ignorati dalla CNN e dalle altre agenzie americane): il 28/7/2012 riferiva che il quadro appariva stabile, ma che era stata necessaria una trasfusione di sangue; il 2/8/2012 un ematologo riferiva che la giovane aveva reagito con successo a trattamenti ancora più forti; i medici esprimevano un certo ottimismo, anche se non escludevano che il bambino potesse subire delle malformazioni in conseguenza della chemioterapia; il 7/8/2012, invece, la situazione iniziava a precipitare: si riferiva che nell'ultima settimana piastrine e globuli bianchi erano scesi e si invitavano le persone a recarsi con urgenza alla clinica per donare sangue. La paziente veniva tenuta in una stanza speciale per proteggerla da ogni tipo di contaminazione.

Come si è detto, purtroppo la ragazza moriva la mattina del 17 agosto: il suo corpo non aveva reagito alla chemioterapia e vi era stata anche una crisi di rigetto durante una trasfusione; la situazione era precipitata fino a quando era sopraggiunto un arresto cardiaco. La CNN riprendeva, allora, la notizia, nuovamente enfatizzando il presunto ritardo nel procedere alle cure e concludendo l'articolo con il richiamo alla norma della Costituzione "incriminata".

Insomma: un caso creato ad arte, perché nessuno aveva mai vietato ai medici di agire con la chemioterapia, né la norma costituzionale imponeva affatto che la ragazza venisse lasciata morire senza cure solo perché era incinta.
Rispettiamo, invece, la verità dei fatti e piangiamo - noi, davvero, senza lacrime di coccodrillo - due giovani vite che la medicina non è riuscita a salvare!

Giacomo Rocchi

sabato 18 agosto 2012

PAROLE: EUTANASIA \5

Concludiamo la riflessione avviata dopo l'intervista a Beppino Englaro apparsa su Il Venerdì di Repubblica dl 27 luglio scorso. In quell'intervista Englaro sosteneva che la morte procurata di sua figlia non aveva niente a che fare con l'eutanasia;indicava, poi, le "parole chiave" per interpretare quella vicenda: il "diritto di rifiutare le cure" come frutto dell'incontro tra diritto e medicina, da lui auspicato e ricercato.
Un nuovo diritto, quindi, finalmente riconosciuto; un diritto che si dovrebbe ritenere "personalissimo", perché ha a che fare con la decisione della persona sulla sua vita e la sua morte. Nei post precedenti abbiamo notato come la tendenza sia esattamente quella opposta: quella di attribuire ad altri il potere di decidere se una certa persona - malata, disabile, "imperfetta" - non tanto debba essere curata, ma direttamente sia "degna" di continuare a vivere, o sia "meglio per lei" (il famoso "best interest") che la sua vita venga meno. Beppino Englaro, in realtà, è il massimo esempio in Italia di questa linea.

Qui, però, vogliamo fare un'ultima riflessione, che riguarda le decisioni dei pazienti sulle proprie cure: siamo sicuri che l'impostazione del problema giusto sia davvero quello del "diritto" (di accettare o rifiutare le terapie)? Di fronte alla malattia e alla sofferenza, di fronte alla paura di morire, al timore di affrontare una malattia lunga e dolorosa o un'operazione chirurgica rischiosa ma necessaria, quali diritti abbiamo? In realtà nessuno: abbiamo, piuttosto, sentimenti, timori, necessità di sostegno morale e psicologico, di consigli di carattere medico e non, di qualcuno che pianga insieme a noi ...
Il "diritto", la formalizzazione di una certa situazione in una formula giuridica, è quanto mai lontana dall'esperienza umana, che è ben altro. L'esperienza della malattia grave richiama, soprattutto, quel rapporto tra medico e paziente, quell'alleanza terapeutica in cui il medico, se il paziente di lui ha fiducia, mette tutta la sua professionalità e tutta la sua umanità per arrivare, insieme al malato, a decisioni giuste e ben ponderate.
Ma la rivendicazione del "diritto a rifiutare le terapie" si accompagna alla demonizzazione del "medico paternalista", quello che - si sostiene - decide per conto suo senza rendere partecipe il paziente; il medico che viene evocato, invece, è quello che "rispetta la volontà del paziente"; quello che "dice di sì", come Mario Riccio che, dicendo di sì a Piergiorgio Welby lo uccise (o come quei medici che sarebbero "buoni" se "non obbiettano" e dicono di sì, in ogni caso, alla volontà della donna di uccidere il bambino che cresce ne suo grembo ...).

Il fatto è che, allontanandoci così dal medico, che si limita ad aspettare i nostri ordini, noi rimaniamo soli, soli a prendere decisioni troppo pesanti per noi.
Ecco che, al "diritto a rifiutare le cure" spesso non si accompagna la "libertà di prendere le decisioni" e ancora più spesso siamo invitati a prendere decisioni terapeutiche senza un'adeguata informazione.
L'anziano abbandonato nell'ospizio sarà davvero libero di rifiutare le cure o moralmente si sentirà obbligato a togliersi di mezzo perché si sentirà un peso per i suoi familiari e per la società? E i genitori di un neonato prematuro, quando il medico dirà loro: "si può salvare, ma potrebbe restare disabile per tutta la vita, decidete voi cosa fare", saranno davvero liberi nel decidere, avranno avuto tutte le informazioni necessarie, avranno compreso le percentuali di probabilità e la natura della possibile disabilità del figlio? E coloro che firmano, in piena salute, il testamento biologico, rifiutando ora per allora le terapie nel caso si trovassero in una determinata situazione, davvero conoscono quella condizione; davvero possono escludere che, se fossero in quella condizione, preferirebbero continuare a vivere?

Il "diritto a rifiutare le cure" si trasforma facilmente nel suo contrario: l'obbligo a farlo o, spesso, una decisione adottata senza adeguata informazione.
Ma non vediamo che è proprio questo che i fautori dell'eutanasia vogliono? Essi vogliono che noi decidiamo di morire, credendo di avere esercitato un nostro diritto ...

Giacomo Rocchi

venerdì 17 agosto 2012

Eugenetica moderna


Il tentativo di far passare l'eugenetica come una possibilità accettabile è sempre più evidente.
Secondo il sentire comune l'eugenetica è abominevole perché è legata al nazismo. Infatti Hitler l'ha messa in pratica sopprimendo i deboli, poi gli indesiderabili, poi quelli che avrebbero avuto una vita non degna ed infine si trasformò nella Shoah. Ora però il capofila della Consulta di bioetica (che non è il Comitato Nazionale di Bioetica, organo consultivo del Governo) il neurologo Carlo Alberto Defanti, quello che accompagnò la povera Eluana Englaro alla tragica fine che conosciamo, sostiene che bisogna superare il tabù dell'eugenetica. Cioè ci si deve ragionare senza “dogmi” e “interdizioni”. La sua tesi è che le pratiche razziste e criminali non sarebbero la conseguenza dell'eugenetica in sé ma solo del venir meno delle garanzie liberali e democratiche dello Stato nazista. Oggi, dice Defanti nel suo libro “Eugenetica: un tabù contemporaneo”, l'eugenetica di Stato non si pone nel mondo occidentale  perché non ci sono totalitarismi. La medicina moderna mettendo a disposizione senza costrizioni i test genetici ripropone un'eugenetica moderna e liberale che può essere usata dai cultori della “libertà di scelta”. Naturalmente questa tesi è messa in discussione dai sostenitori della “sacralità della vita” che secondo Defanti non vogliono accettare “contraccezione, aborto, eutanasia” come scelta individuale. Come da sempre diciamo è stato proprio l'aborto ad aprire la strada delle “scelte individuali” garantite dallo Stato, che oggi arrivano anche alla cosiddetta “eugenetica liberale”.
L'argomento è diventato attuale perché nella zona di Padova da circa 12 anni si fa una campagna d'offerta del test genetico per scoprire la fibrosi cistica. Il risultato è che si sono effettuati migliaia di test per la fibrosi cistica e i bimbi nati con fibrosi cistica sono pochissimi, mentre in altre zone dove si propongono i  test solo ai parenti dei malati la fibrosi cistica è presente. La fibrosi cistica è una malattia congenita che due genitori portatori sani della mutazione sul gene 7 trasmettono una volta su quattro (per il 25 %) al bimbo. La malattia se diagnosticata nel neonato è controllabile  pur restando una malattia seria perché causa problemi soprattutto respiratori dato che il muco bronchiale è molto vischioso e si infetta facilmente.
L’eugenetica moderna elimina il feto con la fibrosi cistica  (o l’embrione sottoposto a diagnosi pre impianto positiva nella fecondazione artificiale) ma non la malattia perché la mutazione del gene 7 è possibile comunque.
I cultori dell’eugenetica liberale in uno Stato democratico la estenderebbero  anche ad altre malattie, e questo per loro sarebbe un progresso non coercitivo della medicina.
Quali malattie genetiche saranno accettate e quali no ?
Chi metterà il limite ?
I test genetici saranno a carico del Sistema Sanitario Nazionale ? (cioè pagati da tutti).
Ai genitori che accolgono un bimbo malato saranno negate le cure o fatte pagare ?
Avremo finalmente una società senza malattie congenite ?
Come si intuisce il vero progresso sta nel trovare la cura della malattia, ed è in questa direzione che dobbiamo indirizzare la vera medicina.

Gabriele Soliani

sabato 11 agosto 2012

PAROLE: EUTANASIA \4

Proseguiamo la riflessione sull’intervista di Beppino Englaro a “Il Venerdì di Repubblica” del 27/7/2012. Abbiamo visto che l’indicazione del “diritto a rifiutare le cure mediche” come elemento distintivo per qualificare la morte procurata come eutanasia (illecita) o non eutanasia (esercizio di diritto) provenga da chi: nega l’evidenza, cioè di essere stato autorizzato ad uccidere la figlia e di averlo fatto; ha impedito la somministrazione non di cure mediche, ma di sostegno vitale alla figlia; ha provocato la morte della figlia non in base ad una volontà espressa in maniera valida dalla figlia, ma in base ad una sua decisione; ha basato la sua decisione sulla convinzione che la figlia fosse “sostanzialmente morta”.
Abbiamo anche visto che il presupposto della volontà del paziente di rifiutare le terapie, così come è avvenuto nel caso Englaro, è messo da parte senza troppi problemi in altre situazioni, prima fra tutte l’eutanasia dei neonati, nella quale i genitori vengono brutalmente invitati a scegliere (così come la madre nel corso della gravidanza nell’aborto eugenetico), sulla base di loro criteri sulla “dignità della vita”, se “vale la pena” che il bambino continui a vivere o se “è meglio” che muoia.
Ma se questa è la chiara tendenza, come possiamo essere tranquilli che davvero le nostre opzioni saranno rispettate? Come possiamo non dubitare che quei nostri concittadini che si sgolano a ripetere: “la vita è nostra! Vogliamo decidere noi!” e che, magari, si precipitano a firmare i “testamenti biologici” (del tutto invalidi giuridicamente) istituiti da alcuni Comuni, altro non siano che degli “utili idioti”? “Utili” a coloro che vogliono avere le “mani libere e pulite” quando decideranno (loro, non chi ha lasciato il testamento biologico …) che è il momento di farla finita?

Due esempi dall’estero per rendere più bruciante questo dubbio? Due studi pubblicati dal Canadian Medical Association Journal (CMAJ) hanno rivelato che in Belgio la metà circa dei procedimenti di eutanasia praticati nei confronti di malati terminali avverrebbe senza il consenso dei pazienti, e che in molti casi sono le stesse infermiere, al posto dei medici, a dare la morte, anche quando non è richiesta; un primo studio statistico indica che su 208 decessi per eutanasia, 142 sono risultati consenzienti, e 66 privi di una preventiva autorizzazione da parte del paziente. Una preventiva discussione con il paziente (che non aveva però dato il consenso) era stata avviata dai medici solo nel 22% dei casi; negli altri casi le giustificazioni erano le più varie: i pazienti erano in stato comatoso o in stato di demenza; ma altre ragioni sulla mancata discussione preventiva sono state individuate dagli stessi medici nel fatto che la decisione di effettuare l’eutanasia corrispondesse comunque, secondo il loro giudizio professionale, al “best interest” del paziente (17,0%), e perché lo stesso fatto di affrontare l’argomento sarebbe stato dannoso per lo stato psicofisico del malato (8,2%) (!). Un secondo studio statistico dimostrava che un quinto delle infermiere in Belgio aveva praticato l’eutanasia sui pazienti, e metà di loro lo aveva fatto senza il consenso della vittima.

Negli Stati Uniti, invece, i “do not risuscitate” (coloro che hanno scritto un testamento biologico) sono stati individuati come “categoria” (a prescindere da quello che avevano scritto …) insieme a quelle degli anziani, dei pazienti in dialisi e dei pazienti con severe patologie neurologiche, cui negare il ricovero nelle strutture ospedaliere, o negare l'uso dei respiratori artificiali in caso di epidemia incontrollabile, con necessità di razionamento forzoso delle cure (“La Repubblica”, 26/10/2009 con riferimento ai piani sanitari predisposti quando la crisi dell’influenza A sembrava fuori controllo).

Davvero il “diritto a rifiutare le cure mediche” (e, quindi, quello a non rifiutarle!) è la “formula magica”, quella che permetterà a ciascuno di essere curato al meglio, secondo i suoi desideri, quella che sarà in ogni caso rispettata?
Temiamo proprio di no: perché la spinta all’eliminazione delle persone “inutili”, costose per la collettività, che sono un “peso” (economico e psicologico) per la famiglia e per la società è sempre più forte.

Il fatto è che l’esistenza di un “consenso” o di un “rifiuto” attribuibile al paziente resta necessario: pensate che qualche legislatore – o qualche amministratore di ospedale – abbia il coraggio di mettere – nero su bianco – che “i disabili psichici gravi (o i soggetti particolarmente anziani, o in stato di demenza senile, o i neonati disabili, o ancora qualche altra categoria) non devono essere curati e devono essere lasciati morire”? Non siamo mica all’eugenetica nazista!

Occorre, quindi, il paravento di un consenso. Ma allora, il “rifiuto delle cure” invocato da Beppino Englaro è un diritto o, piuttosto, un dovere?

Giacomo Rocchi

venerdì 3 agosto 2012

PAROLE: EUTANASIA\3

Davvero la formula “diritto di rifiutare le cure mediche” fornisce il discrimine tra ciò che è eutanasia e ciò che non lo è? Oppure – come sostenuto nel precedente post, con cui abbiamo continuato a commentare l’intervista di Beppino Englaro a Il Venerdì di Repubblica del 27/7/2012 – il rischio è che, così come per la morte procurata di Eluana Englaro, questa formula nasconda il “via libera” ad uccisioni decise da soggetti differenti da chi viene ucciso, soggetti autorizzati a provocare la morte della vittima non in conseguenza di scelte terapeutiche, ma in forza di personali opinioni sulla sua qualità della vita?


Il dato comune a tutte le ipotesi che potenzialmente possono rientrare nell’eutanasia è, semplicemente, la condotta di una persona che decide e provoca consapevolmente la morte di un’altra persona. Altri elementi che sembrerebbero imprescindibili, ad un esame più approfondito non lo sono: ciò vale per lo stato di malattia della vittima e per la sua sofferenza e, soprattutto, per il dato della volontà di morire della vittima e per quello della manifestazione di questa volontà.

L’eutanasia dei neonati – solitamente quelli prematuri, per i quali la prognosi di sopravvivenza in conseguenze di terapie intensive si accompagna alla previsione di disabilità più o meno gravi – è una buona cartina di tornasole per saggiare la solidità della formula evocata da Beppino Englaro.
In quei casi la decisione viene affidata ai genitori e, quindi, si prescinde del tutto dalla volontà della vittima, senza che ciò faccia scandalo, come se la potestà genitoriale comprendesse anche la facoltà di decidere la morte del figlio: eppure la “volontà presunta” del bambino è facilmente desumibile dall’attaccamento alla vita (la “vitalità”) che i neonati manifestano (salvo che siano neonati terminali, la cui morte è inevitabile).
Non basta: ai genitori viene attribuita la facoltà di rifiutare tutte le cure mediche per il figlio e ciò fa comprendere che la decisione non è “terapeutica”, ma riguarda la vita o la morte. Il criterio proposto è quello che le madri di feti “imperfetti” vengono autorizzate ad adottare nel cosiddetto “aborto terapeutico”, che altro non è che aborto eugenetico (osserviamo l'antilingua usata anche per questa pratica): qualità della vita futura del bambino e dei genitori, insopportabilità della prospettiva di una condizione di handicap che possa durare per molti anni. Esattamente lo stesso giudizio sulla “dignità” della vita che ha permesso ad Englaro di provocare la morte della sua “assistita”.

Anche il richiamo alle “sofferenze intollerabili” del paziente, quale criterio per giustificarne l’uccisione “pietosa” è, in realtà, spesso equivoco e crea una cortina fumogena per nascondere criteri ben diversi. Mettiamo da parte il tema dei pazienti terminali, coloro che una malattia inguaribile e progressiva sta conducendo verso una morte imminente e inevitabile: per essi, ovviamente, è buono e necessario, oltre alla attenuazione del dolore fisico per quanto possibile, l’astensione da terapie invasive e dolorose, inutili a salvare loro la vita. Ma, salvo questo caso, come non dubitare che, spesso, le sofferenze siano “intollerabili” non per chi le sopporta, ma per chi lo assiste? Ancora: come non accorgersi che, spesso, di fronte a patologie gravissime e persistenti, ad essere sentita come “intollerabile” da chi circonda il paziente sia, in realtà, la prosecuzione della sua esistenza?
Del resto, anche il termine “sofferenza” rischia, in quest’ottica, di essere sganciato dal substrato oggettivo: Eluana Englaro, nella sua condizione di disabile psichica amorevolmente accudita dalle Suore, “soffriva”? Si può davvero escludere che, al contrario, ella fosse “felice”?

E' necessario continuare a scavare questo tema. A leggere l'intervista di Beppino Englaro il quadro sembra chiaro: l'uccisione della figlia Eluana è parte di un percorso di civiltà, di riconoscimento di diritti, che vengono ostacolati solo da forze retrive, oscurantiste. Chi ha qualche anno in più, o chi conosce la storia, sorride rispetto al continuo ricomparire del mito del progresso, di un ennesimo sole che si intravede all'orizzonte ...
La risposta, però, può e deve essere ragionata e razionale: e non pare difficile, rispetto a mistificazioni della realtà e delle parole che si intravedono appena sotto la patina dorata ...

Giacomo Rocchi

mercoledì 1 agosto 2012

PAROLE: EUTANASIA \2

Cosa si intende quando si parla di “eutanasia”? Ha ragione Beppino Englaro (la cui intervista su Il Venerdì di Repubblica del 27/7/2012 abbiamo iniziato a commentare nel precedente post), quando sostiene che l’uccisione della figlia Eluana, con l’eutanasia “non c’entra un fico secco”?

Proviamo a fare un elenco dei casi che, in qualche modo, hanno a che fare con l’eutanasia: quella eugenetica messa in atto dal regime nazista (e non solo da quello), l’uccisione per pietà dei malati sofferenti o l’aiuto prestato al loro suicidio, il diritto al suicidio per i sani, il trattamento dei malati terminali e il divieto di accanimento terapeutico, la mancata rianimazione dei neonati estremamente prematuri, l’omissione di terapie e di sostegno vitale ai disabili fisici o a quelli psichici (compresi quelli nel cosiddetto “stato vegetativo”), il rifiuto delle terapie e/o del sostegno vitale da parte dei pazienti o dei sani, la facoltà per i tutori e i genitori di impedire terapie per gli interdetti e i figli minori, il testamento biologico, le dichiarazioni anticipate di trattamento.

Beppino Englaro chiarisce, in altri passaggi dell’intervista, quali sono i tratti distintivi della sua vicenda, quelli che la renderebbero diversa da un caso di eutanasia: la sentenza della Cassazione “ci ha dato il diritto a dire no alle cure”; egli aveva vissuto la “tragedia della responsabilità. Quali scelte fare e quali no in una situazione limite”; ma “noi genitori non avevamo dubbi sulla decisione di rifiutare le cure”. Il motivo per cui non vi sono stati altri “casi Englaro”? “Perché occorreva, per sentenza, che ci fosse una condizione irreversibile e la certezza della volontà del paziente. Quanti giovani si sono espressi sul rifiuto delle cure? Lei, però, l’aveva fatto”. Secondo Beppino Englaro, infatti, “Eluana, che era forte e intelligente, pur essendo credente, metteva al centro non la sacralità, ma i diritti umani di libertà, di responsabilità e di scelta”.
La parola d’ordine, quindi, è: diritto di rifiutare le cure mediche, libertà di questo rifiuto; questo è il risultato “giusto” che si ha quando “diritto e medicina si incontrano” ; Englaro sostiene di avere voluto questo incontro fin dal 1992, anno dell’incidente della figlia.

Se rileggiamo l’elenco fatto all’inizio, quindi, possiamo intuire quali siano le pratiche che Beppino Englaro qualifica come eutanasia, “che è un reato”: quella eugenetica, ovviamente; ancora, l’uccisione diretta dei pazienti (il rifiuto delle cure può portare soltanto ad ometterle, non può portare ad azioni specificamente volte alla morte del paziente); poi la sospensione delle cure e delle terapie nei confronti di soggetti che non l’hanno chiesto; infine – parrebbe di capire – l’aiuto al suicidio o l’omicidio di chi l’ha chiesto per ragioni di carattere non medico.

La “memoria di Eluana” – ora che è stata uccisa, è memoria di tutti, e non solo del padre – impone di scavare più a fondo, di non fermarsi alle parole d’ordine di chi ha avuto ragione in un giudizio privo di un effettivo contraddittorio (il curatore speciale nominato proprio per garantirlo, si associò alla richiesta del tutore di far morire la figlia fin dalla prima udienza) e di sottolineare qualche punto che Beppino Englaro lascia cadere nell’intervista: l’uso dell’espressione “cure”, per ricomprendere acqua e cibo nelle “terapie”, così da presentare il rifiuto opposto dal tutore come attinente al campo medico; ma anche la duplicazione dei soggetti che avrebbero deciso (la figlia che “si era espressa sul rifiuto delle cure” o i genitori, che si sono assunti la “responsabilità di prendere la decisione di rifiutare le cure”?); e, soprattutto, la qualificazione della condizione di Eluana Englaro dopo l’incidente come “situazione limite”, “zona di confine tra vita e morte”. Sappiamo bene che, fin dal 1992, Beppino Englaro riteneva la figlia “morta” (“Ogni giorno, da quasi diciassette anni, facciamo visita alla sua tomba: nostra figlia è morta il giorno dell’incidente; non sarà la sepoltura del suo corpo a dirci che lei non c’è più”, La Stampa, 14 novembre 2008).

L’analisi del caso Englaro permette, non a caso, di giungere a conclusioni che toccano proprio questi punti: i Giudici autorizzarono Beppino Englaro a decidere, ritenendo irrilevante la volontà manifestata da Eluana Englaro; la decisione non aveva affatto a che fare con il rifiuto di terapie ma riguardava direttamente l’uccisione della disabile; la decisione venne affidata a chi esplicitamente sosteneva che la condizione in cui l’interdetta si trovava – lo stato vegetativo persistente – non era degna di essere chiamata vita, tanto da ritenere del tutto inutile qualunque cura o terapia.

Quindi: decisione di vita o di morte lasciata a soggetto diverso dall’interessato, adottata per motivi riguardanti le condizioni fisiche e psichiche della vittima. “Libertà di vivere o di morire” affidata ad altri e ai loro criteri di “dignità della vita”.
Non è che, l’essenza dell’eutanasia è (quasi) sempre questa?
Cercheremo di vederlo.

Giacomo Rocchi