Davvero la formula
“diritto di rifiutare le cure mediche” fornisce il discrimine tra ciò che è eutanasia e ciò che non lo è? Oppure – come sostenuto nel precedente post, con cui abbiamo continuato a commentare
l’intervista di Beppino Englaro a Il Venerdì di Repubblica del 27/7/2012 – il rischio è che, così come per la morte procurata di Eluana Englaro, questa formula nasconda il “via libera” ad uccisioni decise da soggetti differenti da chi viene ucciso, soggetti autorizzati a provocare la morte della vittima non in conseguenza di scelte terapeutiche, ma in forza di personali opinioni sulla sua qualità della vita?
Il dato comune a tutte le ipotesi che potenzialmente possono rientrare nell’eutanasia è, semplicemente,
la condotta di una persona che decide e provoca consapevolmente la morte di un’altra persona. Altri elementi che sembrerebbero imprescindibili, ad un esame più approfondito non lo sono: ciò vale per
lo stato di malattia della vittima e per
la sua sofferenza e, soprattutto, per il dato della
volontà di morire della vittima e per quello della
manifestazione di questa volontà.
L’eutanasia dei neonati – solitamente quelli prematuri, per i quali la prognosi di sopravvivenza in conseguenze di terapie intensive si accompagna alla previsione di disabilità più o meno gravi – è una buona cartina di tornasole per saggiare la solidità della formula evocata da Beppino Englaro.
In quei casi la decisione viene affidata ai genitori e, quindi,
si prescinde del tutto dalla volontà della vittima, senza che ciò faccia scandalo, come se la potestà genitoriale comprendesse anche la facoltà di decidere la morte del figlio: eppure la “volontà presunta” del bambino è facilmente desumibile dall’attaccamento alla vita (la “vitalità”) che i neonati manifestano (salvo che siano neonati terminali, la cui morte è inevitabile).
Non basta: ai genitori viene attribuita
la facoltà di rifiutare tutte le cure mediche per il figlio e ciò fa comprendere che la decisione non è “terapeutica”, ma riguarda la vita o la morte. Il criterio proposto è quello che le madri di feti “imperfetti” vengono autorizzate ad adottare nel cosiddetto “aborto terapeutico”, che altro non è che aborto eugenetico (osserviamo l'antilingua usata anche per questa pratica): qualità della vita futura del bambino e dei genitori, insopportabilità della prospettiva di una condizione di handicap che possa durare per molti anni. Esattamente lo stesso giudizio sulla “dignità” della vita che ha permesso ad Englaro di provocare la morte della sua “assistita”.
Anche il richiamo alle
“sofferenze intollerabili” del paziente, quale criterio per giustificarne l’uccisione “pietosa” è, in realtà, spesso equivoco e crea una cortina fumogena per nascondere criteri ben diversi. Mettiamo da parte il tema dei pazienti terminali, coloro che una malattia inguaribile e progressiva sta conducendo verso una morte imminente e inevitabile: per essi, ovviamente, è buono e necessario, oltre alla attenuazione del dolore fisico per quanto possibile, l’astensione da terapie invasive e dolorose, inutili a salvare loro la vita. Ma, salvo questo caso,
come non dubitare che, spesso, le sofferenze siano “intollerabili” non per chi le sopporta, ma per chi lo assiste? Ancora: come non accorgersi che, spesso, di fronte a patologie gravissime e persistenti,
ad essere sentita come “intollerabile” da chi circonda il paziente sia, in realtà, la prosecuzione della sua esistenza?
Del resto, anche il termine “sofferenza” rischia, in quest’ottica, di essere sganciato dal substrato oggettivo: Eluana Englaro, nella sua condizione di disabile psichica amorevolmente accudita dalle Suore, “soffriva”? Si può davvero escludere che, al contrario, ella fosse “felice”?
E' necessario continuare a scavare questo tema. A leggere l'intervista di Beppino Englaro il quadro sembra chiaro: l'uccisione della figlia Eluana è parte di un percorso di civiltà, di riconoscimento di diritti, che vengono ostacolati solo da forze retrive, oscurantiste. Chi ha qualche anno in più, o chi conosce la storia, sorride rispetto al continuo ricomparire del mito del progresso, di un ennesimo sole che si intravede all'orizzonte ...
La risposta, però, può e deve essere ragionata e razionale: e non pare difficile, rispetto a mistificazioni della realtà e delle parole che si intravedono appena sotto la patina dorata ...
Giacomo Rocchi