sabato 18 agosto 2012

PAROLE: EUTANASIA \5

Concludiamo la riflessione avviata dopo l'intervista a Beppino Englaro apparsa su Il Venerdì di Repubblica dl 27 luglio scorso. In quell'intervista Englaro sosteneva che la morte procurata di sua figlia non aveva niente a che fare con l'eutanasia;indicava, poi, le "parole chiave" per interpretare quella vicenda: il "diritto di rifiutare le cure" come frutto dell'incontro tra diritto e medicina, da lui auspicato e ricercato.
Un nuovo diritto, quindi, finalmente riconosciuto; un diritto che si dovrebbe ritenere "personalissimo", perché ha a che fare con la decisione della persona sulla sua vita e la sua morte. Nei post precedenti abbiamo notato come la tendenza sia esattamente quella opposta: quella di attribuire ad altri il potere di decidere se una certa persona - malata, disabile, "imperfetta" - non tanto debba essere curata, ma direttamente sia "degna" di continuare a vivere, o sia "meglio per lei" (il famoso "best interest") che la sua vita venga meno. Beppino Englaro, in realtà, è il massimo esempio in Italia di questa linea.

Qui, però, vogliamo fare un'ultima riflessione, che riguarda le decisioni dei pazienti sulle proprie cure: siamo sicuri che l'impostazione del problema giusto sia davvero quello del "diritto" (di accettare o rifiutare le terapie)? Di fronte alla malattia e alla sofferenza, di fronte alla paura di morire, al timore di affrontare una malattia lunga e dolorosa o un'operazione chirurgica rischiosa ma necessaria, quali diritti abbiamo? In realtà nessuno: abbiamo, piuttosto, sentimenti, timori, necessità di sostegno morale e psicologico, di consigli di carattere medico e non, di qualcuno che pianga insieme a noi ...
Il "diritto", la formalizzazione di una certa situazione in una formula giuridica, è quanto mai lontana dall'esperienza umana, che è ben altro. L'esperienza della malattia grave richiama, soprattutto, quel rapporto tra medico e paziente, quell'alleanza terapeutica in cui il medico, se il paziente di lui ha fiducia, mette tutta la sua professionalità e tutta la sua umanità per arrivare, insieme al malato, a decisioni giuste e ben ponderate.
Ma la rivendicazione del "diritto a rifiutare le terapie" si accompagna alla demonizzazione del "medico paternalista", quello che - si sostiene - decide per conto suo senza rendere partecipe il paziente; il medico che viene evocato, invece, è quello che "rispetta la volontà del paziente"; quello che "dice di sì", come Mario Riccio che, dicendo di sì a Piergiorgio Welby lo uccise (o come quei medici che sarebbero "buoni" se "non obbiettano" e dicono di sì, in ogni caso, alla volontà della donna di uccidere il bambino che cresce ne suo grembo ...).

Il fatto è che, allontanandoci così dal medico, che si limita ad aspettare i nostri ordini, noi rimaniamo soli, soli a prendere decisioni troppo pesanti per noi.
Ecco che, al "diritto a rifiutare le cure" spesso non si accompagna la "libertà di prendere le decisioni" e ancora più spesso siamo invitati a prendere decisioni terapeutiche senza un'adeguata informazione.
L'anziano abbandonato nell'ospizio sarà davvero libero di rifiutare le cure o moralmente si sentirà obbligato a togliersi di mezzo perché si sentirà un peso per i suoi familiari e per la società? E i genitori di un neonato prematuro, quando il medico dirà loro: "si può salvare, ma potrebbe restare disabile per tutta la vita, decidete voi cosa fare", saranno davvero liberi nel decidere, avranno avuto tutte le informazioni necessarie, avranno compreso le percentuali di probabilità e la natura della possibile disabilità del figlio? E coloro che firmano, in piena salute, il testamento biologico, rifiutando ora per allora le terapie nel caso si trovassero in una determinata situazione, davvero conoscono quella condizione; davvero possono escludere che, se fossero in quella condizione, preferirebbero continuare a vivere?

Il "diritto a rifiutare le cure" si trasforma facilmente nel suo contrario: l'obbligo a farlo o, spesso, una decisione adottata senza adeguata informazione.
Ma non vediamo che è proprio questo che i fautori dell'eutanasia vogliono? Essi vogliono che noi decidiamo di morire, credendo di avere esercitato un nostro diritto ...

Giacomo Rocchi

3 commenti:

  1. Di fronte alla malattia e alla sofferenza, di fronte alla paura di morire, al timore di affrontare una malattia lunga e dolorosa o un'operazione chirurgica rischiosa ma necessaria, quali diritti abbiamo? In realtà nessuno: abbiamo, piuttosto, sentimenti, timori, necessità di sostegno morale e psicologico, di consigli di carattere medico e non, di qualcuno che pianga insieme a noi ...di tutto questo abbiamo bisogno tutti ed è una fortuna chi non è solo! Ma poi ecco che abbiamo diritto di decidere noi, appunto confortati d aiutati anche se fosse solo il medico che ci indica benefici e controindicazioni, prospettive per il futuro. Sì, abbiamo il diritto di dire come voler continuare le terapie o meno. Vi pare poco? Dott. Mario Riccio non ha ucciso Welby. Welby ha seguito il percorso naturale della sua distrofia che lo ha portato al soffocamento, quando gli fu staccato il respiratore. L'avrei potuto fare io. Il medico lo ha solo sedato in modo che Welby non soffrisse il soffocamento. Sono pratiche frequenti nelle rianimazioni. Se questo lo chiamiamo eutanasia, depenalizziamola! O preferiamo assistere, piangendo ipocritamente le sofferenze dei morenti?

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    1. Qualche puntualizzazione mi sembra necessaria, pur nel rispetto dele opinioni opposte.
      Il dr. Mario Riccio ha uciso Piergiorgio Welby: ciò ha fatto staccandogli il ventilatore artificiale che gli permetteva di respirare. Dire che la morte di Welby sia stata l'esito del percorso naturale della distrofia è errato (a mio parere): l'aiuto alla respirazione è un sostegno vitale del tutto ordinario nei pazienti che hanno tale difficoltà. Non a caso è stato lo stesso Welby a decidere il momento in cui staccare il respiratore, a dimostrazione che non si trattava di un esito "naturale", ma dell'interruzione volontaria (nessuno discute la piena volontà di Welby nella sua scelta) di una cura ordinaria. Perché, altrimenti, Welby accettò a lungo di usare il ventilatore e poi decise di farlo staccare? L'esito "naturale" sarebbe stato, secondo l'opinione di Mina, quello dell'immediato distacco del ventilatore o addirittura del suo non inserimento. Che quella di Welby sia stata un'uccisione (cioè un omicidio di consenziente) è anche la risposta del procedimento penale che ha portato al proscioglimento di Riccio, non perché non avesse ucciso il paziente, ma perché lo aveva fatto in adempimento del dovere, in conseguenza del rifiuto opposto da Welby alla prosecuzione della "terapia" (che, a mio parere, tale non era: questa è un'altra questione). Si noti che, contrariamente a quanto scrive Mina, il Giudice penale scrisse esplicitamente che il distacco del respiratore poteva essere fatto solo dal medico curante e da nessun altro: ciò in quanto lo considerò un atto medico connesso alla revoca del consenso da parte del paziente.
      Anche il caso Welby è intriso di menzogne: in particolare si deve ricordare che l'uccisione di Welby è seguita al parere del Comitato nazionale di Bioetica che negava che la ventilazione artificiale nei confronti di Welby integrasse un accanimento terapeutico e all'esito di procedimenti civili che affermarono che Welby non aveva il diritto di pretendere dal suo medico il distacco del ventilatore, poi attuato da Riccio.
      L'esito del procedimento penale ha, comunque, fatto emergere la figura di Riccio quale simbolo del medico che, senza prendersi nessuna responsabilità, esegue le istruzioni del paziente e si trasforma in colui che uccide il paziente, invece di tentare di salvarlo o, comunque, curarlo per il meglio.
      Non è affatto vero che ciò che ha fatto Riccio nei confronti di Welby è "pratica frequente nelle rianimazioni": dobbiamo distinguere tra soggetti in stato terminale, la cui morte è imminente e inevitabile, per i quali il compito dei medici è di accompagnarli alla morte provvedendo alle cure utili a ridurre il dolore, ad idratarli e a quant'altro utile, dalla situazione di Welby, che non stava affatto per morire, perché avrebbe potuto continuare a vivere per molto tempo, atteso che la distrofia e i suoi effetti (l'incapacità di respirare spontaneamente) erano ancora contrastabili con i sostegni vitali (il ventilatore artificiale) e le cure che gli venivano erogate: si tratta di situazioni del tutto differenti.
      Ancora: ribadisco che nessuno contesta che la richiesta di Welby fosse stata adottata in piena consapevolezza e "libertà" (almeno dal punto di vista giuridico); certo, se uno si circonda di avvoltoi come gli "amici" di Welby, alla fine prende certe decisioni ...
      Il fatto - che il post voleva evidenziare - è che, in realtà, una situazione come quella di Welby è assolutamente eccezionale: la maggior parte delle persone che esprimono la volontà di morire lo fanno in una situazione di depressione, solitudine, abbandono; oppure - come nel caso del testamento biologico - in una di mancata consapevolezza e mancata informazione. Non è affatto un caso (come era stato evidenziato anche nei post precedenti) che i casi in cui la volontà di colui che viene ucciso non viene tenuta in considerazione sono innumerevoli.

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  2. Cara Mina,
    è vero, c'è un impellente bisogno di avere qualcuno vicino, durante la solitudine della malattia, il dolore, l'impotenza e tutto il resto che solo chi soffre profondamente ha provato. C'è bisogno di amici, di persone che condividano la difficoltà, cercando di alleviare per quanto possibile il dolore, magari con le migliori cure palliative. C'è bisogno di persone che sappiano dare una speranza che vada oltre, oltre anche alla morte; perché anche la sofferenza e la morte hanno un senso, hanno valore.

    L'unica cosa di cui non abbiamo bisogno è di quella falsa pietà che uccide o assiste al suicidio, questo no. La vita è sacra, basta essere uomini onesti per comprenderlo.

    Perché quando troviamo una persona debole e sofferente non possiamo mai confondere il suicidio come una soluzione valida, è male, è sempre sbagliato.

    Anche se una persona fosse in bilico tra la vita e la morte, agonizzante ci implorasse di essere liberata dal corpo, non sarebbe assolutamente lecito assecondarla, sarebbe comunque un grave omicidio. Non siamo padroni della vita, non possiamo crearla, non possiamo distruggerla. Possiamo solo amarla, rispettarla, accoglierla, promuoverla. A volte solo stare vicino silenziosi, ma fermi nel vero bene.

    Per il resto ci affidiamo a Colui che ci ha creato, che ci osserva con sguardo amorevole di Padre.

    La morte non è la fine, c'è molto di più.

    Coraggio Mina.

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