Leggere per intero le 78 pagine di motivazione della recente sentenza della Suprema Corte di Cassazione che condanna un ginecologo a risarcire il danno cagionato al bimbo nato "anormale" (termine tra i tanti usato in sentenza per descrivere il bimbo), perché affetto dalla sindrome di Down, in conseguenza del fatto che la mamma non ha potuto esercitare il "diritto di aborto", per carenza di diagnosi, ha l'effetto di un pugno nello stomaco e fa il paio con quell'altra sentenza di oltre 68 pagine che ha permesso di lasciar morire per fame e sete Eluana Englaro.
In gergo para giuridico, questi pronunciamenti vengono definiti: "sentenze manifesto", in quanto dietro paludati ed altisonanti sofismi giuridici, nonché prolisse quanto vuote argomentazioni astratte, ai limiti del parossismo, sovvertono principi basilari di diritto naturale e positivo, per affermare il principio assoluto dell'autodeterminazione dell'uomo sul bene Vita. Sia quella intrauterina, perché incapace di reazione violenta e totalmente affidata alle cure della madre, che quella malata non più rispondente a canoni di “dignità umana” dettati da soloni in buona salute.
Con questa ultima sentenza, il desiderio eugenetico della madre che dichiara di volere solo un figlio sano, perché qualora fosse "anormale", nello specifico Down, quel figlio dovrebbe morire per mano del medico abortista, diviene fondamento di un diritto risarcitorio verso un sanitario che non ha, con la sua condotta seppur omissiva, determinato l'anomalia genetica del bimbo.
Ciò è di palese evidenza che neppure Le Loro Signorie, nel lungo argomentare, hanno potuto negarlo, ma la responsabilità c'è, se ben abbiamo compreso, ma il se è d’obbligo data la tortuosità dell’argomentare, in quanto quel figlio è nato, in quelle condizioni, per colpa del medico che non ha ben diagnosticato la possibile malformazione, impedendone di fatto il di lui aborto da parte della madre.
In sintesi, si potrebbe affermare che non potendo condannare, per assenza di patrimonio, al risarcimento del danno il Buon Dio o madre natura, (a seconda che si sia credenti o atei) per l'errore genetico verificatosi all'atto della scissione delle cellule, la Corte condanna l'unico soggetto che poteva evitare in concreto ed in concorso con la madre, la nascita dell'"anormale", diagnosticando correttamente la malformazione. Costui, infatti, ha impedito, con il suo errore, che la mamma attuasse quel piano eugenetico manifestato sin dalla prima visita, quando, come si legge in sentenza, ebbe a dichiarare che condizione imprescindibile per la prosecuzione della gravidanza era che il bimbo fosse sano, pena la morte per quel figlio.
In conclusione, però, ci chiediamo, seguendo a contrario, il "ragionamento" della Corte, ma se la mamma avesse invece voluto quel figlio, ben consapevole dell'anomalia inscritta nei suoi geni, essendo tale vita portatrice di “un danno” non solo, come chiarito dai giudici, per tutta la famiglia, ma anche per la collettività che dovrà, suo malgrado, farsi carico, con il sistema di assistenza sociale, della povera creatura, vi sarebbe una legittimazione dello Stato ad ottenere un risarcimento da quella donna, per tutte le conseguenze economicamente negative che la collettività dovrà sopportare a seguito di quella scelta, non conforme ai canoni di normalità correnti, tenuto conto che oggi è possibile evitare il “danno” "grazie" alla democristiana e ultra progressista legge 194/78, nella sua più moderna esegesi, fornitaci da una sempre aggiornata ed evoluta giurisprudenza delle Supreme Corti?
Ai posteri e alla creatività dei nostri "Supremi Giudici", l'ardua sentenza.
Pietro Brovarone
Movimento per la Vita - Biella
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