Cosa si intende per "eutanasia"?
Venuti meno i motivi che spingevano ad eliminare individui in ragione della loro razza, eutanasia non è soltanto l’uccisione pietosa di colui che chiede di essere ucciso oppure l’aiuto prestato allo stesso a suicidarsi; come abbiamo detto nel precedente post piuttosto è attribuire ad una persona il potere di decidere la vita e la morte di un’altra persona che non può farlo autonomamente.
La legalizzazione dell’eutanasia costituisce, in definitiva, una eccezione al divieto di omicidio volontario, che la legge penale sanziona severamente, così come la legalizzazione dell’aborto pone delle eccezioni al divieto di uccidere i bambini prima della nascita.
Come raggiungere questo risultato? Per i limiti costituzionali e anche per motivi di sensibilità generale non è (per il momento?) possibile porre eccezioni esplicite al divieto di uccidere esseri umani (non è possibile, cioè, riscrivere la norma sull’omicidio volontario, ad esempio, in questo modo: “chiunque cagiona la morte di un uomo, salvo che si tratti di soggetto in stato vegetativo o di neonato prematuro a rischio di gravi disabilità, è punito con la pena non inferiore a ventuno anni di reclusione”).
Si deve, allora, passare attraverso la omissione di cura delle malattie o addirittura attraverso la mancata nutrizione e idratazione a coloro che non sono in grado di nutrirsi e idratarsi da soli, lasciando la decisione ad altri.
Occorre, però, far sì che la decisione di non curare o di non nutrire un incapace o un minore – decisione che, di fatto, ne provoca la morte – sia giuridicamente efficace, in modo da far venir meno l’obbligo giuridico di curare e di nutrire.
Spieghiamo questo passaggio cruciale con qualche esempio: se una madre (magari per la depressione post partum ben conosciuta) fa morire suo figlio non dandogli da mangiare, senza che nessuno se ne accorga, sarà responsabile di omicidio del figlio perché ha omesso un comportamento – quello di nutrire colui che non poteva farlo da solo e che era affidato alla sua cura – che era doveroso; ella sarà colpevole così come lo sarebbe se uccidesse il figlio con una coltellata: omettere un comportamento doveroso e provocare la morte mediante questa omissione equivale a provocare la morte con un comportamento attivo. Allo stesso modo la madre sarà colpevole di omicidio del figlio se, avendo il bambino una qualche patologia (magari una forte influenza) che può essere curata a casa con medicinali (ad esempio antibiotici) che il dottore ha regolarmente prescritto, decide di non somministrare il medicinale al bambino cosicché la malattia si aggrava e, non curato, alla fine il bambino muore.
L’esempio della madre e del bambino può essere allargato ad ipotesi simili: ad esempio al padre di un figlio che, in conseguenza di un trauma, ha perso conoscenza; o al figlio di un padre anziano colto da demenza senile e ormai incapace di provvedere alle proprie necessità anche minime; sono tutti casi (se ne possono trovare altri) in cui c’è una persona debole (a volte malata, altre volte in una condizione di incoscienza oppure affetta da forte handicap fisico o mentale) che necessita di terapie e di sostegno vitale per sopravvivere e non è in grado di curarsi o nutrirsi da solo per la sua età, per il suo stato di incoscienza, per le sue condizioni fisiche e mentali.
Il principio generale vigente è che è obbligatorio curare e nutrire queste persone: un medico di un ospedale che si accorge che un anziano demente è affetto da broncopolmonite, lo deve curare adeguatamente e non può omettere di prescrivergli gli antibiotici sulla considerazione che, vista la condizione in cui si trova, davvero non vale la pena prolungare una vita di quel genere (che, fra l’altro, fa soffrire i congiunti e “blocca” un letto in corsia che costa molto al servizio sanitario); e un neonatologo che ha in cura un neonato prematuro che, se sottoposto a cure intensive, ha buone possibilità di sopravvivere, anche se rischia di riportare qualche handicap, non può dire: “non lo mettiamo nell’incubatrice! Tanto, se riusciamo a salvarlo, sarà un infelice!”; o l’infermiera o la badante che ha la cura di un soggetto in stato di incoscienza irreversibile, non può decidere di smettere di nutrirlo, pensando: “intanto, cosa cambia? Non tornerà mai alla coscienza!”.
L’infermiera non può farlo … ma il tutore sì! Il caso Englaro, per la prima volta in Italia (in altri paesi era già successo), ha creato una breccia al principio generale che è obbligatorio curare e nutrire gli esseri umani che non possono farlo da soli: in forza dei provvedimenti dei Giudici è stato attribuito ad un’altra persona (appunto: il padre – tutore) il potere di rendere non più obbligatoria la nutrizione e l’idratazione del soggetto incosciente: e se non erano più obbligatorie, la loro sospensione – che, di fatto, ha provocato la morte di Eluana Englaro – non integra più il reato di omicidio volontario, perché è stata una condotta autorizzata e lecita.
Ma, se il caso Englaro si basava su sentenze civili del tutto inaspettate e decisamente discusse, dobbiamo attenderci il tentativo di stabilire lo stesso principio per legge: se il potere di decidere sulla vita e la morte dei loro assistiti viene attribuita dalla legge ai genitori dei minori, ai tutori, agli amministratori di sostegno, non ci sarà più bisogno di cause giudiziarie per ottenere il risultato sperato e tutto rientrerà nella normalità.
C’è un altro argomento che spinge i fautori dell’eutanasia a non accontentarsi di sentenze e cercare di fare approvare una legge: la posizione dei sanitari. Occorre far sì che i medici e gli infermieri non possano erogare terapie necessarie agli incapaci o di fornire loro il sostegno vitale nel caso i genitori o i tutori siano contrari e, insieme, garantirli da ogni rischio per la morte dell’incapace non curato o non nutrito.
Solo così i sanitari non potranno impedire l’eutanasia e (almeno la maggioranza di loro) non vorranno impedirla.
Questo obbiettivo era esplicitato, ad esempio, nel progetto di legge Poretti e Perduca (radicali), uno di quelli su cui il sen. Calabrò doveva lavorare: si prevedeva, in quel progetto, che “il mancato rispetto delle volontà espresse (dal tutore o dall’amministratore di sostegno) è perseguibile penalmente e civilmente a tutti gli effetti” (quindi la minaccia contro i medici riottosi), ma si assicurava ai sanitari che rispettano le volontà “anche qualora ne derivi un pericolo per la salute o per la vita del dichiarante” che essi sarebbero stati “esenti da ogni responsabilità, anche in deroga a contrarie disposizioni di legge vigenti prima dell’entrata in vigore della presente legge” (la tranquillità garantita al medico che fa quello che deve fare …).
Vedremo come il progetto Calabrò regola questo argomento cruciale nel prossimo post.
Giacomo Rocchi
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