mercoledì 20 novembre 2013

DEMOCRAZIA E OBIEZIONE DI COSCIENZA

Il 70% dei sanitari italiani è obiettore di coscienza in materia di aborto. In altre parole il 70% di chi è chiamato ogni giorno a lavorare nei nostri ospedali giudica la soppressione del bimbo che si sviluppa nel ventre materno un atto che contrastata con i principi morali ed etici della professione sanitaria. Obiettivamente l'atto chirurgico con il quale si lacera il corpicino inerme del nascituro è tutto meno che curativo, così come la somministrazione di pillole idonee a provocare l'avvelentameto di quel figlio rifiutato nulla ha di amorevole e salvifico. È, quindi, di tutta evidenza come, nei fatti, alla coscienza dei più ripugni piegare la professione sanitaria ad una pratica che procura la morte di una persona innocente, in barba all'ideologia di morte che ha avvelenato la cultura moderna degli ultimi sessanta anni. Questo stato di cose, però, sta stretto all'ideologismo abortista di una élite intellettuale tardo femminista che vorrebbe proibire l'obiezione di coscienza. Del resto proprio la possibilità di sollevare obiezione di coscienza nei confronti di un atto che non ha contenuto curativo è la prova provata che l'aborto ha in sé una valenza malvagia che contrasta con la funzione stessa del sanitario. È la prova provata inscritta nella legge 194/78 che l'aborto non è un diritto della donna, ma un delitto depenalizzato, ovvero un crimine che lo Stato permette e finanzia in ossequio ad una cultura di morte. Se fosse vero il contrario, se cioè ci trovassimo davanti ad un diritto pieno non sarebbe legittima alcuna obiezione di coscienza. Si è visto mai un medico sollevere obiezione di coscienza per sottrarsi dal praticare un'appendicectomia o una operazione a cuore aperto ? No, mai è capitato e mai capiterà perché quelli sono atti medici a tutela del diritto alla vita del paziente, l'omissione di uno di quegli atti porta alla galera. L'attacco all'obiezione di coscienza è, quindi, l'ultimo atto necessario per negare ciò che è palese a tutti, ovvero che l'aborto è un atto omicida. Diceva Pier Paolo Pasolini: " Che la Vita sia sacra è ovvio: è un principio più forte ancora di ogni principio di democrazia." Purtroppo la democrazia ha dissacrato la Vita e di questo siamo tutti responsabili. Pietro Brovarone per il Movimento per la Vita Biella

sabato 16 novembre 2013

Prove tecniche di Stato totalitario


Perché l'aggressione nei confronti dell'obiezione di coscienza e degli obiettori è così virulento?
I medici che - applicando una norma contenuta in quella stessa legge 194 del 1978 che tanti vogliono difendere ad ogni costo - si rifiutano di essere coinvolti nelle pratiche abortive dimostrano silenziosamente la natura di quell'atto: un bambino, che cresce felice nel grembo di sua madre, viene ingiustamente e brutalmente ucciso, avvelenato o fatto a pezzi.
La realtà è quella ... ed è una realtà che, spessissimo quell'atto cui la donna si è sottoposta per i più diversi motivi lascia nella stessa donna sofferenze e postumi, fisici e psicologici.
Ma, evidentemente, la realtà non deve apparire: le donne devono essere tenute all'oscuro di quanto avverrà; la popolazione intera non deve sapere, non deve riflettere, non deve usare il proprio cervello e la propria coscienza. Ecco: i medici obiettori non sono disposti a smettere di agire e pensare in "scienza e coscienza".
Per questo bisogna combatterli, intimidirli, licenziarli, esporli al pubblico ludibrio.
Ma in questo slancio è evidente la volontà di andare oltre: dell'aborto non si deve parlare oppure si deve dire solo le cose che lo Stato abortista vuole che si dica ... altrimenti minacce, provvedimenti repressivi, denunce.

Due episodi mostrano quanto abbiamo appena scritto.
A Bergamo, il Corriere della Sera si scomoda perché un medico obiettrice - di cui ovviamente si fornisce il nome e il cognome, e anche l'indirizzo dello studio, così da permettere a qualche femminista nostalgica o a qualche esagitato di fare il suo lavoro ... - nel proprio studio privato ha cancellato un passo del manifesto dello "Spazio Giovani" della ASL di Bergamo in cui si riporta che in quello "Spazio" si forniscono anche informazioni relative all'interruzione della gravidanza. Fra l'altro quel medico, oltre a rivendicare il diritto di appendere quello che vuole nel suo studio privato, dice esattamente che "se qualcuno vuole sapere qualcosa su questo argomento ne parla con il medico, non leggendone sui manifesti".
Ma, evidentemente, questo non è possibile, tanto che la Direttrice dell'ASL ipotizza che la condotta del medico avrebbe leso "il diritto dei pazienti a essere informati sui propri diritti e sui servizi messi a disposizione dall’Asl" e preannuncia provvedimenti, sostenendo che "la spiegazione che l’ambulatorio è suo non regge". 
E perché non "regge"? Perché la verità di Stato sull'aborto deve poter entrare anche nei luoghi privati, così da prevalere sul contenuto dei colloqui che la dottoressa, se richiesta, farebbe con le sue pazienti?

Per un fatto avvenuto a Jesi si è, invece, mosso l'Espresso, che, come sappiamo, ha in atto una campagna con cui vuole dimostrare che, per colpa degli obiettori di coscienza, gli aborti sono impossibili in Italia. 
Jesi era salita all'onore della cronaca qualche tempo fa perché, per un certo periodo, nel locale ospedale gli interventi abortivi non erano stati eseguiti per essere tutti i medici obiettori di coscienza. Si tratta di episodio che fa onore alla classe medica di Jesi ma che - ovviamente - non ha in alcun modo leso il diritto ad abortire delle donne in base alla legge 194, "costringendole" solo a spostarsi di qualche decina di chilometri. Fra l'altro - come si ricava dallo stesso articolo - il problema è stato "risolto" esattamente come la legge 194 aveva previsto: con la mobilità del personale non obiettore.
Ma torniamo al punto. Qui "una lettrice dell'Espresso, Rita", ha da dire sui manifesti presenti nel Consultorio Pubblico: in particolare una bacheca del Centro di aiuto alla Vita in cui si propongono le immagini di feti ai vari stati di sviluppo e si riportava una drammatica testimonianza di una donna che aveva abortito con gravi conseguenze fisiche e psicologiche.
Vedete: negli studi privati è obbligatorio mettere i manifesti dei Consultori pubblici che parlano di aborto alle ragazze a partire dai 14 anni (!); nei Consultori pubblici è vietato parlare di aborto come è nella realtà ...
Vediamo cosa dice "Rita": 
"Trovo questo volantino raccapricciante nel suo fanatismo, oltre che scientificamente inaccettabile nel suo contenuto: il suo unico scopo evidente è di colpevolizzare e, peggio, criminalizzare, le donne che hanno fatto la sempre difficile e drammatica scelta di abortire e che, a termini di legge, rivolgendosi alla sanità pubblica, hanno il diritto di essere aiutate e accompagnate nella loro comunque dolorosa scelta".
Le parole sono ben conosciute: "fanatismo"; sì, perché avvisare le donne che pensano all'aborto che: a) con quell'atto uccideranno un bambino; b) con quell'atto rischieranno gravi danni fisici e psichici, è fanatismo, non è rispetto del "diritto del paziente ad essere informato", per usare le parole della Direttrice della ASL di Bergamo ...
"Colpevolizzare" e "criminalizzare": "Rita" vuole le donne inconsapevoli e felici, eterne minorenni?
"Scientificamente inaccettabile": dove, signora Rita?
"Le donne devono essere aiutate e accompagnate nella loro dolorosa scelta": e non vengono aiutate se, con tutto l'aiuto che un Centro di Aiuto alla Vita fornisce, riescono a portare avanti la gravidanza e a far nascere un bambino?
Ma l'Espresso non si accontenta: si lamenta che 
"la bacheca del “Centro di aiuto alla vita” domina lo spazio centrale del corridoio e non essendo bilanciata da nessun altro tipo di comunicazione attigua ed ufficiale dell'Asl diventa di fatto il primo riferimento che una donna si trova di fronte una volta arrivata al consultorio".
In altre parole: i manifesti che dimostrano che quello che rischia di essere abortito è un bambino devono essere "bilanciati": ci si chiede da cosa, da un manifesto che sostiene che, invece, quello è un semplice "grumo di materia" (per usare le parole di un noto assessore)?

Naturalmente "Rita" e con lei l'Espresso, dimentica che la legge 194 impone ai consultori di informare la donna sui servizi sociali, sanitari ed assistenziali concretamente offerti dalle strutture operanti sul territorio" e che lo scopo è quello di "contribuire a far superare le cause che potrebbero indurre la donna all'interruzione volontaria della gravidanza", che può essere raggiunto anche con la collaborazione di "idonee formazioni sociali di base e associazioni di volontariato, che possono anche aiutare la maternità difficile dopo la nascita" (art. 2). 

Ma quello che colpisce è, anche in questo caso, la decisa spinta verso una "verità ufficiale", che deve dire determinate cose (ad esempio, alle ragazzine di 14 anni che possono avere una bella vita sessuale, usare contraccettivi e non preoccuparsi delle gravidanze, tanto c'è la possibilità di interromperla ...) e deve cancellarne altre, proprio quelle vere!
E allora: andate a guardare la "bacheca degli orrori" di Jesi! Guardate in faccia il volto di quel bambino che sorride, e ringraziate l'Espresso per questo splendido autogol!
Giacomo Rocchi

sabato 9 novembre 2013

L'obiezione di coscienza serve a fare carriera?


Una delle affermazioni più ricorrenti nella quotidiana battaglia contro l'esercizio dell'obiezione di coscienza dei medici, che si rifiutano di uccidere bambini applicando la previsione della legge 194 del 1978, è che esiste una discriminazione nei confronti dei medici non obiettori: se il medico vuole fare carriera, è meglio che faccia obiezione di coscienza.
La LAIGA, l'associazione che raduna i medici non obiettori, tra i suoi compiti statutari ha quello della "sorveglianza sulle pari opportunità in ambito lavorativo tra personale non obiettore e obiettore con denuncia lì ove vi sia discriminazione"; anche il reclamo della CGIL al Consiglio d'Europa lamentava una discriminazione operata nei confronti dei medici non obiettori.
Poco più di un anno fa, un articolo su Repubblica esprimeva al meglio questa posizione: si affermava, infatti, che "I medici obiettori in Italia vedono favoriti carriera e guadagni. E infatti la loro percentuale dilaga: sono obiettori il 71 per cento dei ginecologi italiani": quell'infatti dimostrava chiaramente come l'Autore dell'articolo non credesse affatto che l'obiezione dei medici sia fondata su effettivi motivi di coscienza: Adriano Sofri scriveva, poco dopo, che "una dose modica di ipocrisia è essenziale alla convivenza civile. L'eccesso di ipocrisia la degrada". 
Si intervistava la dottoressa Giovanna Scassellati, direttrice del Day Hospital-Day Surgery della legge 194 al San Camillo di Roma.
La d.ssa Scassellati affermava, tra l'altro: 
"Con l'aborto non ti fai clienti: succede che non abbiano più voglia di vederti, dopo. E la gente per lo più sceglie questo mestiere per fare i soldi". 
Di fronte alla domanda sul perché non fosse diventata primario, rispondeva: 
"Non ci sono primari non obiettori. Poi sono donna".
Quindi, doppia discriminazione: i non obiettori non diventeranno mai primari; se sono donne, poi ... sì perché, evidentemente, il rifiuto di eseguire aborti è un atto tipico del maschio - che ha fatto il medico per fare i soldi e che non accetta che la donna eserciti in pieno la sua autodeterminazione.

La d.ssa Scassellati si sarà (suppongo) stupita a leggere l'intervista della d.ssa Alessandra Kustertmann all'Huffington Post, presentata ai lettori come "primario alla clinica Mangiagalli di Milano, donna di sinistra, laica, da sempre impegnata nella difesa della 194, ha aiutato migliaia di donne a interrompere una gravidanza".
La d.ssa Kustermann risponde sulla polemica relativa al cimitero dei bambini non nati deliberata dal Consiglio Comunale di Firenze. L'intervistatrice cerca, però, di trascinarla sul solito argomento: l'alto numero degli obiettori di coscienza impedirebbe l'attuazione della legge 194. Questa la risposta: 
"L'obiezione è ineliminabile. È duro lavorare come ginecologo non obiettore, ma non possiamo fare altro. Penso che in Lombardia, dove ha governato Comunione e liberazione per molti anni, alla fine sia rimasto intatto il diritto a interrompere una gravidanza. Soltanto a Milano siamo tre primarie non obiettrici: abbiamo comunque fatto carriera nonostante facessimo aborti. Forse siamo nate in un luogo più fortunato di altri."
Tre donne medico, tre non obiettrici, tre primarie - solo a Milano! In una Regione in cui - per la vulgata corrente - la giunta Formigoni (che la d.ssa Kustermann etichetta come "di Comunione e Liberazione") avrebbe fatto il bello e cattivo tempo, piazzando i propri uomini in tutti i posti chiave ...
La d.ssa Kustermann, alla fine "tira il freno": "Forse siamo nate in un luogo più fortunati di altri" ... o forse non è affatto vero che facendo aborti non si fa carriera ...

Giacomo Rocchi

domenica 3 novembre 2013

In Italia è sempre urgente uccidere un bambino malato


L'Espresso continua a raccogliere "testimonianze" che dovrebbero dimostrare che la legge 194 sull'aborto in Italia è disapplicata e che la colpa è tutta degli obiettori di coscienza. 
Quella che potete leggere proviene da tale "Roberta" e, ovviamente, la realtà dei fatti raccontati non può essere verificata (non sappiamo se la redazione della rivista provvede a degli accertamenti dopo avere ricevuto le lettere). 


Una sintesi di questi fatti? La donna viene a sapere della malattia cardiaca del bambino il 12 settembre e il 22 settembre viene sottoposta all'intervento abortivo. La donna mostra tutta la sua indignazione verso gli obiettori, ma non riesce a nascondere un fatto: ella può rivolgersi a tutti gli ospedali che vuole e, dopo pochi tentativi, una struttura pubblica gli fornisce il "servizio" richiesto cinque giorni dopo che ella ha avanzato la prima richiesta: sì, perché, come emerge dallo stesso racconto della donna, ella ha avanzato la prima richiesta di abortire solo dopo il 17 settembre. 

Cinque giorni: perché uccidere un bambino malato è evidentemente urgente nel nostro Paese, molto più che eseguire interventi chirurgici anche importanti ... siete mai riusciti a sottoporvi all'intervento per voi necessario in cinque giorni dal momento della richiesta?
Ma come ha fatto Roberta ad abortire in cinque giorni? Sappiamo - lo dice Lei - che ella aveva superato la 22a settimana di gravidanza: quindi si tratta di aborto compiuto dopo i primi novanta giorni, regolato dall'art. 6 della legge 194. Non solo: come la seconda dottoressa aveva spiegato a Roberta, la gravidanza aveva già superato un limite: quello per cui "sussiste la possibilità di vita autonoma del feto"; in altre parole, il bambino, una volta "abortito" (cioè, partorito con parto indotto: infatti Roberta dice proprio di aver partorito), se adeguatamente assistito potrebbe sopravvivere. 
Cosa prevede la legge 194 in questi casi? L'aborto può essere praticato solo quando la gravidanza e il parto comportino un grave pericolo per la vita della donna e, inoltre, il medico che esegue l'intervento deve adottare ogni misura utile a salvaguardare la vita del feto. 
Roberta era in "pericolo di vita"? La lettera non lo dice affatto; fa cenno ad una "lettera della psichiatra cui mi ero rivolta" senza specificare il suo contenuto. Sì, perché, evidentemente, in quei cinque giorni la donna aveva fatto a tempo anche a fare una visita psichiatrica (oppure no? La psichiatra ha mandato una "lettera" senza visitarla?) e la specialista aveva avuto il tempo di certificare qualcosa (il pericolo per la salute psichica? il pericolo per la vita?). 
Ma - come anche questa "testimonianza" dimostra - in Italia "fatta la legge ....": il responsabile del reparto dell'ospedale al quale la donna si era rivolta "mi fece ricoverare d'urgenza per un aborto terapeutico dicendomi che mi avrebbe aiutato perché non si poteva pensare di far nascere un bambino in quelle condizioni". 
E allora: l'articolo 7 della legge prevede che "qualora l'interruzione della gravidanza si renda necessaria per l'imminente pericolo di vita della donna, l'intervento può essere praticato anche senza lo svolgimento delle procedure". Ci vuole un "imminente pericolo per la vita della donna": la donna potrebbe morire entro un brevissimo tempo se l'aborto non venisse eseguito. 
Ricorrevano queste condizioni? Assolutamente no: Roberta non stava affatto morendo e, del resto, il medico aveva preso quella decisione per "aiutarla". 
E allora: il racconto di Roberta (come si è detto, da verificare) ci narra di medici che fanno interamente il loro lavoro (il radiologo che riferisce della malattia del bambino e risponde anche alla donna che manifesta la volontà di abortire richiamando la legge 194) e di altri che - a quanto sembra - fanno "carte false" per procedere ad un aborto che la legge non permette. 
Qualcuno all'Espresso si sarà chiesto se la certificazione del medico era ideologicamente falsa perché attestava un imminente pericolo per la vita della donna che, in realtà, non esisteva? Sarà venuto il dubbio che, forse, in quel certificato, il medico aveva anche attestato falsamente una settimana di gravidanza anteriore a quella effettiva, per eludere il dettato della legge? E poi: qualcuno si sarà chiesto se il medico che aveva eseguito l'aborto aveva adottato ogni misura utile a salvaguardare la vita del bambino, dopo l'aborto?
Tutti comportamenti che la legge 194 - sì, proprio quella di cui si invoca l'applicazione! - sanziona penalmente. 
Roberta conclude la sua "testimonianza" con un giudizio severo sui medici obiettori: "non è così che dovrebbero esercitare il loro mestiere, perché davanti a ogni pensiero dev'esserci il rispetto per la persona che si ha davanti": ma noi sappiamo che il medico che aveva eseguito l'ecografia aveva rispetto per "la persona che aveva davanti", tanto che si rifiutava di ucciderla ... Davvero aveva lo stesso rispetto il medico che, in pochi istanti, decise di "aiutare" la donna uccidendole il figlio malato e facendola entrare in quel "tunnel" da cui ella spera, "prima o poi", di uscire?
Giacomo Rocchi