venerdì 17 ottobre 2008

fecondazione in vitro, aborto, eutanasia


Concludiamo la riflessione sulle dichiarazione della baronessa Mary Warnock: la conoscevamo alla guida della Commissione che inventò il pre-embrione, l'abbiamo ritrovata, quasi trent'anni dopo, a spargere perle di saggezza sull'aborto, sul dovere di rianimazione dei neonati prematuri, sul dovere di farsi da parte per i malati incurabili.
E' forse un caso che la nobildonna si occupi di questioni apparentemente così lontane? Hanno una relazione le prese di posizione della Warnock nei diversi campi?
La nostra autrice non si è certo dimenticata la decisione del 1984: quasi un'excusatio non petita, ne parla per rassicurare (o rassicurarsi?) sugli effetti di quel Rapporto. La Warnock affronta il tema del "pendio scivoloso", la tesi che fa discendere da una decisione sbagliata conseguenze sempre peggiori:
"Il problema dell’argomentazione risiede nella parola “inevitabilmente”: non c’è alcuna connessione logica che conduce da x a y o z.
Nel caso dell’utilizzo degli embrioni umani nei primi giorni di vita per scopi sperimentali – pratica su cui i sostenitori della teoria del “pendio scivoloso” hanno spazio nell’evocare mostri alla Frankenstein portati alla nascita in laboratorio – permettendo agli scienziati di tenere un embrione vivo nel laboratorio per 14 giorni non implica logicamente che essi lo terranno vivo per un periodo superiore. Tenere un embrione vivo in laboratorio per un periodo più lungo di 14 giorni dalla fertilizzazione è stato previsto essere un reato: e nessuno che lavora nel campo del’embriologia vorrebbe incorrere in una sentenza che lo condanna alla reclusione. La sua carriera sarebbe finita".

Come si vede l'Autrice costruisce per i propri scopi una tesi contrastante con la propria, per ridicolizzarla: nessun pericolo di creazione di mostri!

Ma è la stessa Warnock ad essere, come si è visto nei precedenti post, la dimostrazione vivente delle conseguenze sempre peggiori di quella decisione - come si è visto, del tutto antiscientifica, adottata solo per interessi "superiori" - che sembrava potesse avere un riflesso solo su una tecnica - la fecondazione in vitro - che allora muoveva i primi passi.

Abbiamo visto come ella rifiuti di prendere atto dei progressi scientifici che permettono la rianimazione dei neonati estremamente prematuri, così da non limitare nemmeno di due settimane il termine per eseguire gli aborti; quanto ai neonati prematuri, con gravi rischi di disabilità, ella affermava già nel 2004:
"Può darsi che il discorso si riduca a questo: “Va bene, possono rimanere vivi, ma la famiglia dovrà pagare per questo”. Altrimenti vi sarebbe un terribile salasso sulle risorse pubbliche";
e inevitabilmente, come si è visto nei primi post, la Warnock ha rivolto la sua attenzione verso i sofferenti e i dementi: e non è certo una sorpresa - dopo avere visto le precedenti posizioni - che ella ipotizzi un dovere di morire (da attuarsi, se del caso, con un bel testamento biologico).

Quando c'è da scegliere tra la vita e la morte di un essere umano, la baronessa Warnock - che ha influenzato il dibattito bioetico in questi trent'anni in Gran Bretagna - ha una sola risposta: la morte!
La vita di un uomo non vale mai quanto altri interessi superiori: la "pubblica ansietà", la ricerca scientifica, le risorse pubbliche (!).

Coerentemente, dopo avere fatto e suggerito tutte le scelte sbagliate che si presentavano, ella affronta la sua posizione:
"Se andassi in una casa di riposo, sarebbe un terribile spreco di denaro che la mia famiglia potrebbe usare molto meglio".

Giacomo Rocchi






mercoledì 15 ottobre 2008

All'inizio era il pre-embrione

1978: nasceva la prima bambina concepita in vitro.
1984: il Comitato Warnock, presieduto dalla baronessa Warnock che abbiamo già conosciuto, si pronunciò in ordine alla possibilità di ricerca sugli embrioni umani.

La risposta giunse dopo due passaggi: nel primo il Comitato negava la possibilità di distinguere gli embrioni in base al loro sviluppo:
"... una volta che il processo dello sviluppo è iniziato, non c'è stadio particolare dello stesso che sia più importante di un altro; tutti sono parte di un processo continuo, e se ciascuno non si realizza normalmente nel tempo giusto e nella sequenza esatta lo sviluppo ulteriore cessa. Perciò da un punto di vista biologico non si può identificare un singolo stadio nello sviluppo dell'embrione, prima del quale l'embrione in vitro non sia da mantenere in vita".

La risposta - che pareva ovvia - era quindi che non si potesse effettuare ricerche sugli embrioni.
Ma il Comitato si pronunciò nel senso opposto:
"Tuttavia si è convenuto che questa era un'area nella quale si doveva prendere una precisa decisione al fine di tranquillizzare la pubblica ansietà. Nonostante la nostra divisione su questo punto, la maggioranza (16 su 23) di noi raccomanda che la legislazione dovrebbe disporre che la ricerca possa essere condotta su ogni embrione risultante dalla fertilizzazione in vitro, qualunque ne sia la provenienza, fino al termine del quattordicesimo giorno dalla fecondazione, ma soggetta a tutte le altre restrizioni imposte dal Comitato di autorizzazione".

Si abbandonava, quindi, la certezza scientifica e per motivi utilitaristici si discriminavano gli embrioni sulla base di un criterio arbitrario: si affermava che gli embrioni erano esseri umani che meritavano ogni rispetto, ma si fingeva che non lo fossero.

A distanza di trent'anni la Baronessa Warnock non ha smesso di discriminare gli uomini nella stessa maniera. Nell'affrontare il tema dell'aborto tardivo - anche in Gran Bretagna si discute se fissare alla 22a settimana di gravidanza - anziché alla 24a settimana - il termine ultimo per cui l'aborto è permesso, in ragione della aumentate possibilità di sopravvivenza, ella argomenta:
"ciò che ora è un aborto legale verrebbe considerato un parto indotto seguito dall’infanticidio.
In prima battuta, sembra un cambiamento benigno e diretto a salvare vite. I bambini nati così prematuramente devono essere sottoposti a cure intensive e, se sopravviveranno, molto probabilmente in larga misura avranno danni cerebrali. I genitori e gli specialisti, nella maggior parte dei casi, dedicano loro stessi a mantenerli in vita, se è possibile. Medici e infermieri hanno sempre odiato eseguire aborti tardivi e il pensiero che il feto abortito possa sopravvivere deve rendere l’aborto ancora più odioso".

Scatta, però, una domanda terribile: "Ma la scelta politica di salvare queste vite risponde all’interesse pubblico? Si tratta di una questione cui i legislatori devono porsi".
La difesa della vita di un uomo non è più considerata - di per sé - rispondente all'interesse pubblico, ma è subordinata ad un altro interesse, che viene considerato superiore.

Vista questa impostazione, già si intuisce che si tratta di una domanda retorica, che introduce ad una risposta negativa: non è nell'interesse pubblico salvare la vita a bambini prematuri a rischio di sopravvivenza e che potranno avere danni cerebrali.


Ma la Warnock, per giungere a questo risultato, passa ancora attraverso una finzione normativa, analoga a quella adottata per gli embrioni:
"Se siamo d’accordo a ritenere che l’aborto dopo le 22 settimane debba essere considerato un infanticidio, la risposta sarà “si”. E’ nel pubblico interesse prevenire l’uccisione dei bambini. Una società che la permettesse sarebbe semplicemente inumana e incivile, non una società in cui vorremmo vivere. Dopo tutto, spesso ci siamo detti che la civilizzazione di una società deve essere giudicata da quanto essa si prende cura dei suoi membri più vulnerabili e pochi potrebbero essere più vulnerabili dei neonati prematuri.
Ma, naturalmente, se la legge viene cambiata, essi non saranno bambini prematuri"

Basta un numero cambiato nella legge (da 24 a 22 settimane) ed ecco: la soluzione è trovata!

Giacomo Rocchi

venerdì 10 ottobre 2008

La terza via



In un precedente post abbiamo commentato uno scritto di Leonardo De Chirico sull'aborto.

Vediamo allora come l'illustre bioeticista imposta la questione dello statuto dell'embrione.

Dapprima De Chirico critica due impostazioni contrapposte:
"(L'etica cattolica) sostiene a gran voce una posizione di tipo ‘sostanzialista’, mentre l'etica laica difende generalmente una concezione di tipo ‘funzionalista’. (...) Se il sostanzialismo postula un rigido quadro metafisico e non tiene conto della dimensione dinamica dello sviluppo dell’embrione, né dei diversi contesti in cui esso può trovarsi (utero, laboratorio, in celle frigorifere, ecc.), il funzionalismo eleva criteri del tutto soggettivi a elementi determinanti la dignità della vita umana in formazione".

Si tratta di "due posizioni che, per quanto individuino aspetti importanti da tenere presenti, li estremizzano in chiave ontologica o gradualista".

Si può essere estremisti? Assolutamente no!

Occorre trovare una terza via: ecco lo snodo dell'argomentazione di De Chirico:
"L’essere umano non è solo un dato biologico-ontologico, né semplicemente un divenire funzionale. È anche questo, ma ci si deve interrogare se non sia l’elemento relazionale a collegare lo status e la storia dell’uomo, il suo essere e divenire".

Si parla, si noti bene, non solo dell'embrione, ma dell'uomo in sé; e infatti si ribadisce:
"Egli (l'essere umano) è tale in quanto non possiede proprietà ontologiche o svolge funzioni complesse, ma in quanto intrattiene relazioni significative e coinvolgenti con sé, con gli altri, con il mondo, ecc."

Quindi l'essere umano che non intrattiene relazioni significative e coinvolgenti ... non è un essere umano!
Come mai nessuno ci aveva mai pensato prima? Perché i padri costituenti, gli autori delle dichiarazioni universali dei diritti dell'uomo non hanno provveduto a distinguere tra i diritti degli uomini e i diritti degli uomini che non intrattengono relazioni significative e coinvolgenti ...

Per fortuna ci sono certi bioeticisti che dimostrano l'utilità di questa definizione dell'essere umano: applicata agli embrioni "innanzi tutto, permette di considerare legittima la ricerca sugli embrioni prima dell’impianto, fatta salva la cautela scientifica e la prudenza morale di tale pratica".

Non basta: "In secondo luogo, lo statuto relazionale dell’embrione impedisce di considerare gli embrioni soprannumerari come essere umani dal momento che si trovano in un contesto extra-uterino, privi di progetto vitale e senza alcuna possibilità di sviluppare relazioni. Di qui, la loro eliminazione non rappresenta un problema morale insormontabile."

Vedete come è facile? In questo modo possiamo tranquillamente produrre tutti gli embrioni che ci servono per la ricerca, utilizzarli per la ricerca (mi raccomando: con cautela scientifica e prudenza morale!) e, quando non servono, eliminarli.

L'embrione sembra più protetto se la gravidanza è iniziata: "Dopo l’annidamento, invece, l’embrione deve essere tutelato come se si trattasse di un essere umano ancora in formazione, ma dotato della capacità fondamentale di stabilire delle relazioni antropologicamente significative": si noti che il De Chirico propone una finzione: l'embrione è quasi un essere umano ...
Ma su come lo studioso intende la tutela del bambino in gravidanza, rimando al precedente post.

De Chirico è soddisfatto: l'approccio relazionale "individua un criterio scientificamente non arbitrario ed antropologicamente plausibile per riconoscere responsabilmente la sua identità ...

Giacomo Rocchi

giovedì 9 ottobre 2008

A cosa serve il testamento biologico?


Abbiamo visto come alla baronessa Warnock interessi molto di più la possibilità di morire delle persone "inutili", dementi (concetto che comprende ovviamente non solo i pazzi, ma anche i soggetti in stato vegetativo), piuttosto che il diritto al suicidio delle persone colpite da sofferenze insopportabili; anche queste, in realtà, producono sprechi di denaro pubblico e danno sofferenze alla loro famiglia.

Ma, come si è detto, se le persone sono inutili, per esse non basta il diritto a morire: è necessario affermare un loro dovere di farsi da parte.

La Warnock completa il suo ragionamento con un riferimento preciso: "Se tu hai delle direttive anticipate con le quali designi qualcuno ad agire nel tuo interesse e per tuo conto nel caso che tu diventi incapace, penso che in questo caso ci sia una speranza che il tuo rappresentante possa dire che tu non vorresti vivere in quella condizione e così possa tentare di aiutarti a morire".

A pensarci attentamente le direttive anticipate sono estranee al tema delle sofferenze insopportabili; sono invece fondamentali per attuare quello che la baronessa ritiene l'obbligo di morire dei dementi.
Il motivo è lampante: nemmeno la Warnock se la sente di affermare che, se uno incontra per strada uno squilibrato, ha il diritto/dovere di ucciderlo, tenuto conto della sua dannosità per la famiglia e lo Stato; per raggiungere lo stesso risultato occorre passare attraverso una manifestazione di volontà dell'interessato: trasformare l'obbligo di morire in una morte volontariamente richiesta e pretesa.

Lo Stato non attuerà, quindi, più un proprio disegno eugenetico; si limiterà ad attuare le richieste di morte degli interessati.

Facciamo attenzione: nel ragionamento della Warnock, così come ogni uomo inutile deve sentire l'obbligo di farsi uccidere, così deve sentire l'obbligo di redigere il testamento biologico; solo così si dimostrerà un cittadino e un familiare sensibile alla spesa pubblica e al dolore dei suoi congiunti ...
Non c'è dubbio che la Warnock non afferma esplicitamente che la redazione del testamento biologico debba essere obbligatoria (può darsi che nell'articolo per la rivista norvegese, ancora non disponibile, lo sostenga): ma -come da tante parti sottolineato - la sola possibilità di redigerlo costituisce uno strumento di pressione nei confronti dei potenziali utenti: anziani, affetti da malattie progressive ecc..
La sola disponibilità di questo strumento mette in crisi il rapporto medico - paziente, che si fonda sulla fiducia e su un patto tacito per cui il primo non abbandonerà mai il secondo, e anche tra malato e familiari, lasciando il malato solo con i suoi pensieri, le sue preoccupazioni, la sua depressione.

La redazione di un testamento biologico da parte di un soggetto che si sente inutile (o che teme di diventarlo nel prossimo futuro), un fardello per la società e la famiglia, sarà davvero libera?

Questo alla Warnock non importa affatto; piuttosto ella è ben attenta a far sì che quel pezzo di carta metta il malato ormai incosciente alla mercè della volontà altrui.
Notiamo infatti il riferimento al rappresentante: pensate davvero che serva a difendere la dignità di chi l'ha nominato?

No davvero: il suo vero compito - l'anziana nobildonna non si ritrae dall'affermarlo - è tentare di aiutare a morire il paziente, è garantire che questa uccisione - tanto utile per la società e la famiglia e addirittura invocata dal malato - abbia esecuzione.
Giacomo Rocchi


martedì 7 ottobre 2008

Dal diritto di morire al dovere di morire




Perché le dichiarazioni della baronessa Warnock sono così interessanti?


Nel passo in cui ella sostiene il diritto di essere aiutati a morire di coloro che sono colpiti da una sofferenza insopportabile, si nota una vera e propria improvvisa deviazione di rotta: alla Warnock non pare interessare tanto questo caso, ma un altro: quello di chi si sente un "fardello per la famiglia e per lo Stato" e vuole disperatamente morire; o meglio: di chi "è" un fardello per la famiglia e lo Stato.

Il fatto che determinate persone siano un peso per la famiglia e la società sembra un dato acquisito nel discorso della Warnock: "Se sei un demente, stai logorando la vita della gente – la vita della tua famiglia – e stai sprecando le risorse del Servizio Sanitario Pubblico". Già nel 2004 la Warnock affermava: "Se andassi in una casa di riposo, sarebbe un terribile spreco di denaro che la mia famiglia potrebbe usare molto meglio."

Sono davvero distanti le due ipotesi? La prima una condizione soggettiva (il paziente che non sopporta il dolore) e la seconda una oggettiva (il demente che è un peso per la famiglia e per la società)?
Sembra di no: in realtà affermare l'opportunità di uccidere malati sofferenti che chiedono la morte significa implicitamente ritenere questi malati inutili, non degni di vivere. Per usare le stesse parole della Warnock: un malato che sta soffrendo indicibilmente non sta forse logorando la vita della gente e della sua famiglia, non sta forse costringendo chi lo cura a sprecare le risorse del Servizio Sanitario Pubblico?

Se dai il tuo "via libera" a che qualcuno muoia - sia che lo voglia, sia che non lo voglia - vuol dire che non lo ritieni degno di vivere.

Ma la lucida follia della baronessa propone un nuovo e ancor più sorprendente cambio di rotta: i malati inutili non devono avere solo il diritto di morire; devono piuttosto sentire il dovere di morire: "non c’è nulla di veramente sbagliato nel sentire di avere il dovere di farlo tanto nell’interesse degli altri quanto nell’interesse proprio".

Di che tipo di dovere si tratta? Morale o legale? La parola usata dalla Warnock - duty - non chiarisce il dilemma, perché in inglese è usato sia per indicare un'obbligazione morale (to do one's duty, fare il proprio dovere) che un obbligo legale (tanto che viene usato anche per indicare le tasse: esiste, fra l'altro, la death duty, l'imposta di successione ...).
In prima battuta l'indicazione sembra verso un obbligo morale: già nel 2004 ella aveva scritto che "in altri contesti, sacrificarsi per la propria famiglia sarebbe considerato un bene. Non vedo cosa ci sia di orribile nella motivazione di non voler essere un fastidio via via crescente"; anche nell'intervista del 2008 sembra mettere l'accento su quello che la persona prova, sul sentimento.

Ma il salto è breve e inevitabile: come si fa a negare che l'obbligo sia anche giuridico quando lo spreco per la società è invece ritenuto un dato oggettivo, reale (e non soltanto percepito dal malato)? E quando - soprattutto - si sostiene che il danno che il malato che si ostina a non morire colpisce non solo i suoi affetti familiari, ma lo Stato e la società?

Ma se l'obbligo di morire è di natura giuridica, esiste un corrispondente diritto ad uccidere in capo dello Stato. La spietata baronessa ne è consapevole: "la direzione verso cui si andrà in futuro – lo dico piuttosto brutalmente – è che avrai la possibilità di abbattere, di eliminare gli altri".

Con quali strumenti si raggiungerà questo obbiettivo? Lo vedremo nei prossimi commenti.

Giacomo Rocchi

lunedì 6 ottobre 2008

Il dovere di morire

Questa arzilla signora di 84 è una baronessa di Sua Maestà la Regina d'Inghilterra.
Contrariamente a quanto possa far pensare la fotografia la baronessa Mary Warnock non si dedica soltanto a passeggiare nel giardino della sua villa, ma, come ha fatto per tanti anni, lancia i suoi proclami sulle principali questioni bioetiche, sulla vita e sulla morte.
Non vi fate distrarre dalla sua aria pacifica, e ascoltatela:

"Se sei un demente, stai logorando la vita della gente – la vita della tua famiglia – e stai sprecando le risorse del Servizio Sanitario Pubblico (...)
Sono assolutamente, del tutto d’accordo con l’argomento che se la sofferenza è insopportabile, allora qualcuno dovrebbe fornire un aiuto a morire, ma sento che c’è un argomento più ampio: se qualcuno vuole assolutamente, disperatamente morire perché è un fardello per la propria famiglia o per lo stato, penso che anche a lui dovrebbe essere permesso di morire. (...)
In questo periodo ho scritto un articolo per una rivista norvegese dal titolo: “Il dovere di morire?” (A Duty to die?), dove ho sostenuto che non c’è nulla di veramente sbagliato nel sentire di avere il dovere di farlo tanto nell’interesse degli altri quanto nell’interesse proprio. (...)
Se tu hai delle direttive anticipate con le quali designi qualcuno ad agire nel tuo interesse e per tuo conto nel caso che tu diventi incapace, penso che in questo caso ci sia una speranza che il tuo rappresentante possa dire che tu non vorresti vivere in quella condizione e così possa tentare di aiutarti a morire. (...)
Credo che la direzione verso cui si andrà in futuro – lo dico piuttosto brutalmente – è che avrai la possibilità di abbattere, di eliminare gli altri"

Sorpresi?
Molti si sono scandalizzati di queste affermazioni che la baronessa Warnock - che le ha rilasciate ad una rivista della Chiesa di Scozia che le ha volentieri pubblicate (la rivista Life and Work del mese di ottobre presenta così l'intervista: "A Duty to Die? Profile of Baroness Mary Warnock, in which the chair of the government's human fertilisation and embryology committee reveals some provocative opinions on such hot potatoes as euthanasia, mercy killing and cloning."), ma non si può negare un pregio alla baronessa: quella di parlare chiaro!


Commenteremo nei prossimi post queste parole; ma intanto qualcuno potrebbe aver sentito una lontana eco a leggere il cognome Warnock; non sarà mica ...
Sì, la baronessa Warnock era la presidente del famoso Comitato Warnock che, quando la tecnica della fecondazione in vitro era ancora agli albori, coniò il termine "pre-embrione", per definire l'embrione nei primi 14 giorni di vita e consentire allo stesso un trattamento diverso rispetto a quello dovuto nel periodo successivo.
Un caso che una tale autorità nel campo della fecondazione in vitro si spenda in quello dell'eutanasia? Credo proprio di no: toccheremo anche questo tema.

Giacomo Rocchi

venerdì 3 ottobre 2008

Bioetica e realtà: un conflitto?

Leonardo De Chirico del Centro studi di etica e bioetica di Padova, in preparazione di un incontro che si terrà a Padova, così riflette:

"Sull'aborto si sono iniziati a delineare i fronti della discussione bioetica che si sono poi ritrovati anche su altri problemi etici. Si può dire che l'aborto abbia avuto una funzione d'apripista e di orientamento la cui portata è andata ben oltre la questione specifica.
A distanza di trent'anni si può fare qualche osservazione critica.

Ad esempio, la discussione ha erroneamente fatto pensare che la bioetica si risolve nell'essere pro-vita o pro-scelta. Il dibattito ha dato l'impressione che ci fossero due grandi opzioni: una a tutela della vita nascente, l'altra a sostegno dei diritti della donna, e che fossero radicalmente contrapposte. Così facendo, ha male instradato il dibattito bioetico, riducendolo ad un conflitto tra valori con la v maiuscola e diritti assoluti, ed impoverendolo rispetto alla complessità delle situazioni concrete".


NON AVEVAMO CAPITO NIENTE!
Pensavamo che l'aborto fosse l'uccisione di un bambino, una situazione davvero molto concreta; pensavamo che per evitare di uccidere un bambino occorresse negare alla donna il diritto di farlo, ovviamente aiutandola in tutti i modi ad accogliere suo figlio ...

SIAMO DEI SEMPLICISTI!
Le situazioni sono sempre complesse, i valori hanno sempre la v minuscola e i diritti non sono mai assoluti ...


De Chirico prosegue:
"l'aborto non si risolve nell'opposizione pro-vita contro pro-scelta.

Serve un altro paradigma che valorizzi la vita e le scelte all'interno di una triangolazione tra valori di riferimento, responsabilità dei soggetti coinvolti e situazioni diverse che via via si presentano. "


Voi avete capito di che paradigma si tratta?

I bambini abortiti sarebbero più contenti se la loro uccisione fosse frutto di una triangolazione?

Il paradigma servirà a dire che - almeno qualche volta! - la donna non deve abortire?


De Chirico conclude:
"Come l'aborto ha avuto un ruolo formativo nella bioetica contemporanea, così può avercelo per una sua riforma".


La riforma della bioetica sarà nel senso di allontanarsi dalla realtà?

All'incontro (25 ottobre alle ore 15 a Padova) parteciperà Massimo Reichlin dell'Università Vita-salute San Raffaele di Milano.

giovedì 2 ottobre 2008

ABORTO, UN MANUALE PER AGGIRARE LEGGI CHE LO VIETANO

L'International Planned Parenthood Federation (IPPF, Federazione Internazionale per la Pianificazione Genitoriale), fornitore di aborti su scala mondiale di cui è co-fondatrice l'omonima Federazione che ha base negli Stati Uniti, ha recentemente pubblicato un prontuario per aiutare le "Associazioni socie" affliliate e gli attivisti del diritto all'aborto a raccapezzarsi in mezzo alle leggi sull'aborto di tutto il mondo.

In più, questa pubblicazione di 87 pagine guida a come "promuovere la rimozione delle restrizioni" sull'aborto, ad esempio col sostenere che i trattati internazionali vanno interpretati in senso ampio per poter superare le leggi nazionali.

Il manuale, intitolato “Accesso all'aborto sicuro: Uno strumento per valutare gli ostacoli legali e di altra natura,” sostiene che la legittimazione dell'aborto sul piano internazionale "si trova in numerosi trattati internazionali ed altri strumenti" oltre che nelle leggi internazionali consuetudinarie, che sono leggi non di trattati "che sono stabilite in base alle pratiche e ai credi delle nazioni", e si evolvono nel tempo.

Un diagramma dettagliato elenca gli articoli di "importanti trattati, alleanze, convenzioni, dichiarazioni e programmi d'azione che trattano dell'aborto."

Tuttavia nessuno dei trattati o convenzioni elencati, che sono legalmente vincolanti per gli stati che li ratificano, menziona il termine aborto. I trattati sono documenti negoziati da stati sovrani, in molti dei quali all'epoca della ratifica vigeva il divieto di abortire. Nei casi in cui non viene specificato nulla al riguardo, si intende che i trattati lascino intatte le leggi interne delle nazioni che li ratificano, in accordo con i tradizionali principi interpretativi.

Fra le affermazioni fatte dalla IPPF vi che è il linguaggio riguardante il "diritto alla vita" nella International Covenant on Civil and Political Rights (Convenzione internazionale sui diritti civili e politici), secondo cui "“Ogni essere umano ha il diritto innato alla vita," in realtà esigerebbe un diritto all'aborto. 

L'IPPF offre una lettura similmente ampia rispetto ai documenti non vincolanti. Ad esempio, l'IPPF interpreta il termine “salute riproduttiva,” quale è adottata nel non-vincolante Programma d'Azione della Conferenza internazionale sulla popolazione e lo svilupppo, uscito dalla Conferenza delll'ONU al Cairo nel 1994, come termine che include l'aborto.  Pur ammettendo che l'aborto "non è menzionato" in relazione a questa frase, l'IPPF afferma che "può essere interpretata come inclusiva del diritto ad abortire", e individua l'opposizione a questa interpretazione a paesi come gli Stati Uniti e il “Vaticano”.
  
Il linguaggio nel documento stesso del Cairo indica una interpretazione più limitata però. Il paragrafo 7.24 afferma che gli “Stati dovrebbero fare dei passi appropriati per aiutare  le donne ad evitare l'aborto, che in nessun caso va promosso come metodo di pianificazione familiare.” 
  
Allo stesso modo anche il parafrago 8.25 sembra minare la pretesa di usare il documento per imporre un "diritto all'aborto" sugli stati sovrani. "Qualunque misura o cambiamento relativo all'aborto all'interno del sistema sanitario può essere determinato solo a livello nazionale o locale, secondo la procedura legislativa nazionale.”
  
L'IPPF, insieme alle sue tante filiali nazionali, è uno dei più grossi fornitori di aborti nel mondo. L'anno scorso ha ricevuto oltre $115 milioni in sussidi da parte di singole nazioni, della  Commissione europea, delle agenzie dell'ONU come la United Nations Population Fund (UNFPA), e da fondazioni varie, compresa la Fondazione Bill & Melinda Gates.

Fonte Svipop